Aziende senza scrupoli, grazie a pratiche scorrette, vendono una falsa ecocompatibilità ai consumatori che abbracciano stili di vita rispettosi della natura
Molte aziende mettono in atto campagne di marketing e operazioni di ‘fidelizzazione green’ che di verde hanno solamente il colore delle cifre del loro fatturato: è il ‘greenwashing’. Secondo lo ‘Scientific American’, infatti, il ‘greenwashing’ è ciò che accade quando a un pubblico desideroso di comportarsi in modo responsabile verso l'ambiente vengono forniti messaggi contenenti elementi progettati per rendere un settore o una misura politica tali da ‘sembrare’ amichevoli nei confronti della natura, quando in realtà l'industria o l’amministratore pubblico non sono così ‘eco-friendly’ come dicono di essere. Il ‘greenwashing’ è quindi la pratica di far sembrare la sostenibilità di aziende o prodotti maggiore di quella che è, omettendo i reali impatti negativi sull’ambiente. Il termine nasce dalla fusione di ‘green’ (verde, termine usato per descrivere i prodotti ecologici) e ‘whitewashing’ (lavaggio in bianco: indica il tentativo di nascondere e insabbiare fatti). Il neologismo venne introdotto da Jay Westerveld, un ambientalista statunitense che per primo lo impiegò nel 1986 per descrivere il comportamento di alcune grandi aziende, che avevano dichiarato di aver realizzato politiche ambientali per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità derivanti dall’inquinamento causato dalle proprie attività produttive. La parola divenne comune nella seconda metà degli anni ‘80, grazie al caso ‘Chevron’: la compagnia petrolifera realizzò una serie di spot televisivi mirati a convincerei propri clienti che il marchio possedesse un notevole ‘valore aggiunto’, rispetto ai competitors: l’interesse nei confronti della natura e dell'ambiente. Fortunatamente, la falsità del messaggio che la campagna intendeva trasmettere - nelle pubblicità, i dipendenti erano intenti a salvare animali in pericolo - fu prontamente messo in luce e smascherato. Il ‘greenwashing’ è un tipo di comportamento tanto diffuso quanto insidioso, talvolta illegale, tanto da suscitare un gran numero di bandi e di divieti in tutto il mondo. Come accaduto, a suo tempo, per la pubblicità del fumo. In Italia, per esempio, il fenomeno è all’attenzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcom), per i casi in cui si riesce a evidenziare la pubblicità ingannevole. Una delle prime pronunce di condanna relative al ‘greenwashing’ fu contro la Snam, per il suo slogan: “Il metano è natura” del 1996. Altre sentenze condannarono specifiche aziende, molte delle quali erano delle multinazionali molto note. Tuttavia, non sempre si evidenziano comportamenti ‘contra leges’, poiché, molto spesso, il messaggio è subdolo e abilmente fuorviante. Nel 2010, la San Benedetto è stata multata con 70 mila euro proprio dall’Agcom, a causa delle varie pubblicità che definivano le loro bottiglie amiche dell’ambiente. Le nuove bottiglie erano “prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente”: il 30% in meno, per la precisione, implicando un minor uso di energia per la sua produzione. Ed era stata persino premiata nel progetto ‘Coop for Kyoto’ come “azienda virtuosa”. L’Agcom, dopo aver appurato che non ci fossero informazioni o prove del fatto che la quantità di plastica usata fosse minore e, soprattutto, che equivalesse a un minor uso di energia e di emissioni di anidride carbonica, multò l’azienda. In Italia, dal marzo 2014 è stato introdotto l’articolo 12 - intitolato: “Tutela dell'ambiente naturale” - nel Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale: un insieme di norme di comportamento cui sono vincolati i mezzi di diffusione, le aziende, le agenzie, i consulenti e tutti i soggetti aderenti. La direttiva testualmente recita: “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. La norma impone, inoltre, criteri di trasparenza e standard di correttezza nell'ambito dei cosiddetti ‘proclami verdi’, introducendo il vincolo di verificabilità scientifica delle dichiarazioni. Il nuovo articolo è stato redatto in base ad alcune sentenze pronunciate dal Giurì, che hanno tracciato le nuove ‘linee guida’ secondo i principi generali del Codice. La regola nasce con un duplice intento: da un lato, tutelare i consumatori che desiderano lasciarsi guidare, nella scelta dei prodotti, da comunicazioni trasparenti e veritiere sul fronte ambientale; dall'altro, per favorire la costruzione di una ‘green brand reputation’ legittima e affidabile da parte di aziende realmente virtuose, ambientalmente responsabili e pronte a investire in sostenibilità. Nel 2015, la Volkswagen Ag, il secondo produttore automobilistico più importante del mondo, ha ammesso di aver utilizzato dei software per aggirare i controlli sulle emissioni dei propri motori diesel. Un caso di ‘greenwashing’ su scala mondiale a dir poco eclatante, che ha avuto pesanti ripercussioni non solo sul colosso tedesco, ma anche su tutto il settore dell'automobile. Un campanello d’allarme che ha aperto gli occhi alla società contemporanea e il cui ‘effetto-domino’ non si è ancora esaurito, a dimostrazione che la pratica del ‘greenwashing’ è controproducente sul medio e sul lungo termine. Guardando gli spot delle compagnie petrolifere, sempre più colorati di verde, ‘agghindati’ con pale eoliche e solenni impegni a investire nelle energie pulite sembrerebbe che il ‘cartello’ delle ‘Big Oil’ voglia fare ammenda delle malefatte e sia pronto ad abbracciare la rivoluzione energetica. Guardando bene i bilanci di aziende come ‘Bp’ o ‘Exxon Mobil’ si può verificare come le compagnie petrolifere siano ancora intente a fare quel che fanno da sempre: scovare, produrre e vendere le vecchie fonti fossili. Nella convinzione che le loro pubblicità non fossero altro che ‘fumo negli occhi’, l’associazione legale ‘ClientEarth’ ha intentato una causa per ‘greenwashing’ contro il colosso ‘Bp’, accusandolo di ingannare il pubblico con una campagna pubblicitaria fuorviante. L’azione legale ha preso di mira la campagna pubblicitaria che l’azienda petrolifera ha lanciato all’inizio del 2019, la più imponente dell’ultimo decennio, con annunci a pioggia su giornali, manifesti pubblicitari, televisioni e social media, sia in Europa, sia negli Stati Uniti. Secondo l’accusa (respinta dall’azienda), il colosso dell’energia proclama di impegnarsi contro la crisi climatica, ma mantiene ben saldo il suo ‘core business’, fondato sulle fonti fossili. “Mentre gli spot di Bp parlano di energia pulita, in realtà oltre il 96% del capitale societario continua a essere investito sul gas e sul petrolio”, ha dichiarato l’avvocato di ClientEarth, la cultrice di diritto civile Sophie Marjanac. Affidarsi al ‘green marketing’ per rifarsi una ‘verginità’, in un momento in cui l’attenzione sulla crisi climatica è sempre più elevata, in realtà rappresenta una strategia adottata da tutte le compagnie petrolifere. Già nei mesi scorsi, un’inchiesta di ‘InfluenceMap’ ha svelato come, dalla firma dell’accordo di Parigi a oggi, ‘ExxonMobil’, ‘Shell’, ‘Chevron’, ‘Bp’ e ‘Total’ abbiano speso più di un miliardo di dollari in attività di ‘branding’ e di ‘lobbying’. Solo nel 2018, queste compagnie hanno investito quasi 200 milioni di dollari per darsi un’immagine di aziende responsabili e attente all’ambiente e altrettanti per ostacolare le politiche climatiche, mentre dei 115 miliardi spesi nel 2019, appena il 3% è stato destinato allo sviluppo di fonti energetiche a basse emissioni di carbonio. Secondo ‘Greenpeace’, neppure la nostra Eni (che nel 2018 ha speso ben 80 milioni di euro in pubblicità, promozione e attività di comunicazione) resiste alla tentazione di esibire una presunta dedizione verso la tutela ambientale e la sostenibilità. Ecco perché l’ente petrolifero di piazzale Enrico Mattei finanzia campagne sui biocarburanti e si sforza di dipingere il gas come un amico dell’ambiente. Peccato che il gas sia pur sempre un combustibile fossile, anche se possiede un impatto assai inferiore rispetto al carbone e al petrolio. E peccato anche che i ‘biocarburanti’ possano avere un elevato impatto ambientale se ricavati da olio di palma in piantagioni che causano deforestazione. Lo scorso novembre 2019, su segnalazione di Legambiente, del Movimento difesa del cittadino e della delegazione italiana di ‘Transport & Environment’, l'Antitrust ha inoltre aperto una procedura per “pratica commerciale ingannevole” in merito alla campagna pubblicitaria sul biodiesel ‘Eni Diesel+’. A proposito di ‘ecodiesel’: nel diesel che immettiamo nelle nostre auto c'è sempre più olio di palma: una componente vegetale lanciata sul mercato europeo per aggirare una direttiva Ue del 2009 mirante a ridurre le emissioni inquinanti dei carburanti fossili. Anche in Italia, le compagnie petrolifere sono il primo importatore di olio di palma (450 mila tonnellate solo nel 2017, dati Gse) destinato alla produzione di biocarburanti. L'Eni ne tratta più della metà nelle bioraffinerie di Porto Marghera e Gela. In sostanza, dopo aver cacciato con furore l'olio di palma da biscotti e merendine, ne mettiamo dieci volte di più nei serbatoi dei nostri Suv. La diffusione dell’olio di palma per alimentare le auto in Europa è infatti causa, nel sud-est asiatico, di una deforestazione selvaggia e di drenaggio delle torbiere. Lo scorso anno, il 51% dell’olio di palma utilizzato complessivamente in Europa è finito nei serbatoi di auto e camion, rendendo i conducenti di questi mezzi i più grandi e, spesso, inconsapevoli consumatori di olio di palma. Sempre in Italia, la percentuale ormai raggiunge il 95%: il dato più alto in tutta la Ue, anche per via del fatto che il suo uso alimentare è stato progressivamente abbandonato. Gli italiani, insieme agli ungheresi, sono i cittadini europei più contrari a questa sostanza, ma pochissimi di loro sanno che la usano quotidianamente quando vanno in auto. Il tutto nel disinteresse del consumatore finale, che nell'82% dei casi ne ignora la presenza nel gasolio e, una volta appreso, si dichiara contrario in tre casi su quattro (sondaggio Ipsos, settembre 2018). Uno studio del 2015, commissionato sempre dall'Unione europea, ha rilevato che, in effetti, calcolando tutto il processo di produzione, cioè tenuto conto di fattori come deforestazione e trasporto, l'uso dell'olio di palma come carburante provoca più emissioni inquinanti di quelle del gasolio fossile. Dopo anni di impegno e di lotta dei Partiti Verdi all’interno del parlamento europeo, la Commissione ha finalmente dichiarato che l’olio di palma è un falso bio-carburante: l’8 febbraio 2019, con un atto delegato, sono stati condannati i biocarburanti a rischio ‘Iluc’ (Indirect land use change, sostituzione di ecosistemi ad elevata biodiversità, ndr) e sono stati riconosciuti gli studi internazionali che stabiliscono che il 30% delle nuove coltivazioni di palma e l'8% di quelle di soia hanno comportato la distruzione di foreste vergini, brughiere e praterie. Si stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di Co2 pari al triplo dell'equivalente di petrolio, mentre un litro di olio di soia ne causa il doppio. Nonostante le resistenze dei Paesi produttori, preoccupati dalle conseguenze economiche negative, Bruxelles vuole eliminare completamente l’uso dell’olio di palma dalla produzione del ‘biodiesel’ entro il 2030, poiché produrre ‘bio-carburanti’ deforestando il pianeta non è propriamente una pratica compatibile con l’ambiente. Insomma, più gli impatti della crisi climatica diventeranno tangibili, sconvolgendo gli ecosistemi e la vita di milioni di persone, più sarà difficile nascondersi dietro al ‘greenwashing’. A breve, per le compagnie petrolifere potrebbe aprirsi la stagione dei processi: l’azione legale intentata contro ‘Bp’, infatti, fa il paio con quella che ha coinvolto ‘Exxon’, accusata dalla procura di New York di aver ingannato gli azionisti nascondendo loro i costi futuri che l’azienda si sarebbe trovata ad affrontare per colpa dei cambiamenti climatici. L’immagine delle compagnie petrolifere rischia di sporcarsi del tutto. Al punto da creare seri imbarazzi negli investitori. La diffusione della deprecabile pratica del ‘greenwashing’, indirettamente dimostra come la qualità ecologica dei processi poduttivi venga accolta positivamente dai consumatori, al pari, se non di più, di quanto siano apprezzati altri elementi che determinano la qualità dei prodotti. Il Sistema moda Italia (Smi), per esempo, promuove più tracciabilità per combattere il fenomeno del 'greenwashing' nella corsa alla sostenibilità sposata dal settore. E in occasione del convegno ‘Viaggio verso la sostenibilità della filiera’, tenutosi lo scorso 4 ottobre 2019 presso la sede di Confindustria Moda, lo Smi ha acceso i riflettori sulla questione. Dall’incontro è emersa l’esigenza di un approccio, da parte dei principali ‘players’ del settore del fashion, che trascenda astrazioni, sensazionalismi e ‘fake news’ spesso sconfinanti nel 'greenwashing', ma che vada dritto al punto nevralgico della questione, sviscerandone gli aspetti più significativi e concretizzando l’impegno ‘green’, che troppo spesso si professa, ma che troppo poco si attua realmente. “La nostra filiera", ha spiegato nel discorso di apertura dei lavori Marino Vago, presidente di Smi, "si allena da vent’anni nella corsa alla sostenibilità. Ed è per questo che dico con orgoglio che siamo pronti a vincere anche questa nuova competizione. Chiediamo, però, che le regole siano uguali per tutti, che la sostenibilità sia fatta di numeri, di dati misurabili e confrontabili e non solo di puri enunciati. Chiediamo di essere valutati con onestà intellettuale e che le informazioni rilevate siano messe a disposizione del consumatore con assoluta trasparenza: senza tracciabilità, è impossibile parlare di sostenibilità”. Sui social, la pratica del ‘greenwashing’ attrae i ‘social media strategist’ come il miele per le mosche, tutti allettati dalla prospettiva di raggiungere il massimo risultato con uno sforzo tutto sommato limitato. Ovvero: sfruttare le dinamiche della viralità sui social per ottenere un sacco di visibilità positiva per il brand e una ‘reputazione verde’ che ben si sposa con i temi caldi della discussione sul web. Ovviamente, non sempre le cose vanno come ci si aspetta: può capitare che quello che a prima vista venga archiviato come un ‘social media fail’, a un esame più attento si riveli come un tentativo di ‘greenwashing’ neanche particolarmente riuscito. È il caso, per esempio, dell’ormai storico post che Volkswagen pubblicò all’indomani del Capodanno 2012. Il 3 gennaio di quell’anno, infatti, sulla pagina Facebook ufficiale del colosso automobilistico tedesco, apparve una domanda apparentemente innocua: "Cosa vorreste che facessimo per voi, quest’anno"? Quello che sembrava solo un modo come tanti per stimolare l’engagement del pubblico di Facebook nel periodo di 'stanca' post festività natalizie, celava invece un tentativo, nemmeno troppo sottile, di enfatizzare la propria disponibilità ad assecondare i desideri dei propri potenziali clienti e mostrarsi sensibile alle tematiche che stavano a cuore del pubblico. Tutto questo accadeva nonostante, qualche mese prima, Volkswagen era stata accusata da Greenpeace di fare ostruzionismo nei confronti di diverse leggi comunitarie sul clima e sulla regolamentazione delle emissioni di Co2. In quell’occasione, le cose non andarono troppo bene per Volkswagen, che si vide 'sbattere in faccia' centinaia di accuse. E quel post divenne il collettore della protesta degli utenti, che nei commenti accusarono la casa automobilistica di “svendere il pianeta per perseguire i propri interessi”. Non sempre è facile capire quando un’azienda fa ‘greenwashing’. Bisognerebbe, prima di tutto, pensare in modo critico al vero impatto che l’azienda o l’attività presentata ha effettivamente sull’ambiente. La rete internet spesso viene in aiuto del consumatore, grazie a vari siti che denunciano tali attività fraudolente, come ‘Goodguide’, ‘GreenWikia’ o ‘Il Fatto Alimentare’. Essere un consumatore consapevole è il primo passo per evitare di cadere nelle ‘trappole’ della comunicazione ingannevole e, quindi, del ‘greenwashing’. Ma la tecnologia, sotto questo profilo, costituisce un validissimo alleato, poiché per molti beni di consumo esistono delle app che permettono di conoscere, in modo estemporaneo e tramite un calcolo dettagliato, l'impronta ecologica di molti prodotti. E sempre sul web, è possibile raccogliere anche preziose informazioni riguardanti la reputazione dell'azienda e la sua effettiva sostenibilità. Naturalmente, anche leggere a fondo le etichette e le informazioni riportate direttamente sui prodotti è operazione importante, per verificare che termini come ‘green’ o ‘eco-friendly’ abbiano un effettivo riscontro in termini reali e concreti. Di fronte a certificazioni e loghi, è possibile informarsi nel dettaglio, per conoscere i criteri di assegnazione e quali aspetti della produzione essi coinvolgono, nonché per verificare l'effettiva esistenza di tali certificazioni. Bloccare e penalizzare le aziende che fanno ‘greenwashing’ è dovuto anche per premiare quelle imprese che, con grande sforzo e lungimiranza, hanno investito o stanno spendendo fondi ed energie per preservare veramente l’ambiente dallo sfruttamento delle risorse comuni, per l’arricchimento smisurato di pochi.
I 7 peccati capitali del ‘greenwashing’
1) Peccato del compromesso nascosto: si tratta di un'affermazione che suggerisce come un prodotto sia ecologico in base a una serie ristretta di attributi, senza attenzione ad altre importanti questioni ambientali. La carta, per esempio, non è necessariamente preferibile, dal punto di vista ambientale, perché proviene da una foresta raccolta in modo sostenibile, dato che altre importanti questioni ambientali nel processo di fabbricazione della carta, come le emissioni di gas a effetto serra o l'uso di cloro nel candeggio, possono essere altrettanto importanti.
2) Peccato di nessuna prova: sorge quando un'affermazione ambientale non risulta corroborata da informazioni di supporto facilmente accessibili o da una certificazione affidabile di terze parti. Esempi comuni sono i tessuti del viso, tamponi vari e prodotti di carta igienica, che rivendicano varie percentuali di contenuto riciclato post-consumo senza fornire prove.
3) Peccato di vaghezza: è un'affermazione poco definita o, viceversa, talmente ampia che il suo significato reale può essere frainteso dal consumatore. Lo slogan: “Tutto naturale”, per esempio. Arsenico, uranio, mercurio e formaldeide sono certamente elementi presenti in natura, ma velenosi. “Tutto naturale” non significa, necessariamente, ‘green’.
4) Peccato di adorazione delle false etichette: lo si commette quando un prodotto, attraverso parole o immagini, dà l'impressione di avallo da parte di terzi, in assenza di tale avallo. Etichette false, in altre parole, come la frase: “Accetato dall’associazione etc. etc.”, non sempre esistente. Sono infatti gli Ordini professionali gli enti ‘terzi’ preposti a fornire determinate certificazioni ‘etiche’, non improvvisati consorzi privati, spesso autoreferenziali o ‘pseudoprofessionali’.
5) Peccato di irrilevanza: sono quei casi in cui un'affermazione ambientale può essere veritiera, ma non importante o utile per i consumatori, che cercano prodotti preferibili dal punto di vista della sostenibilità ‘green’. La mancanza di Cfc (clorofluorocarburi) è un esempio comune di affermazione pubblicitaria molto frequente, ma resa irrilevante dal fatto che i Cfc sono da tempo vietati ai sensi del Protocollo di Montreal.
6) Peccato di minore dei ‘due mali’: è un tipo di affermazione pubblicitaria che può essere vera all'interno di una specifica categoria di prodotto, ma che rischia di distrarre il consumatore dai maggiori impatti ambientali del settore nel suo insieme. Le sigarette organiche, o i veicoli sportivi a basso consumo, sono due esempi di questo peccato.
7) Peccato di raccontare ‘frottole’: avviene quando ci ritroviamo a leggere dichiarazioni ambientali semplicemente false. Gli esempi più comuni sono quei prodotti che dichiarano, falsamente, di essere certificati o registrati come ‘Energy Star®’.
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