La guerra tra Russia e Ucraina ha effetti anche sugli approvvigionamenti alimentari di Africa e Medio Oriente: per questo, orientare il mercato verso abitudini diverse potrebbe scongiurare carestie e contrastare l’emergenza climatica
Il conflitto scoppiato a fine febbraio alle porte dell’Europa sta portando al pettine tanti nodi irrisolti del sistema produttivo di questo villaggio globale chiamato Terra. Le sanzioni alla Russia hanno il potere di non finanziare il conflitto. Tuttavia, sul lungo periodo rischiano di mettere in serio pericolo lo stile di vita di quei Paesi europei dipendenti da essa dal punto di vista energetico. Ma non saranno soltanto l’assenza del gas e del petrolio russi a rischiare di compromettere il sistema economico globale. L’Ucraina è storicamente il ‘granaio d’Europa’, ma non solo. Il Paese guidato dal presidente Zelensky ha di recente rassicurato i mercati europei: almeno il 70% della produzione di grano tenero (26 tonnellate l’anno) e di soia (4 tonnellate l’anno) del 2022 raggiungerà gli scaffali dei nostri supermercati. Ma gli appelli più preoccupanti arrivano dagli allevatori: gran parte della produzione di mais e soia, infatti, è destinata a nutrire gli animali da reddito, cioè quelli destinati a diventare cibo per la tavola dell’uomo. Per scongiurare il rischio di preventive macellazioni di massa, onde evitare di far morire di fame milioni di animali, le grandi multinazionali si stanno rivolgendo ad altri fornitori. Brasile e Argentina si dicono pronti a rispondere a un aumento della domanda. Ma qual è il prezzo da pagare per quello che sembra un normale riequilibrio del libero mercato? I Paesi maggiori produttori del mondo di carne, grano e soia gioveranno di profitti maggiorati, sostenibili per nazioni come l’Italia e la Germania, che però rischiano di scatenare guerre per il cibo in Africa e in Medio Oriente. L’altro pegno da pagare, per l’aumento di produzione di soia e grano per le esigenze dei mercati, è l’ennesima corsa al disboscamento delle foreste.
Gli impatti dell’industria della carne e dei suoi derivati sulla deforestazione
È il Wwf, innanzitutto, a lanciare l’allarme con il report: 'Deforestazione e cambiamento climatico: l’impatto dei consumi sui sistemi naturali'. Uscito il 21 marzo scorso, per la Giornata mondiale delle foreste, il dossier dipinge un quadro decisamente apocalittico. Le foreste pluviali sono in grado di assorbire un terzo delle emissioni di Co2 antropiche, quando sono correttamente preservate. Circa 8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica sono state immesse in atmosfera solo con il taglio degli alberi dal 2000 al 2019. A ciò bisognerebbe sommare quelle provenienti dagli incendi di intere aree boschive, facilitati ed esacerbati dalle siccità. Gli interessi che si celano dietro la deforestazione appartengono al 50% all’industria della carne, per la precisione agli allevamenti intensivi. Le coltivazioni occupano solo il 6,4% dei terreni utilizzabili. La vulgata tende ad additare la responsabilità dell’impoverimento del suolo a vegani e mangiatori di tofu, a diverso titolo. Ma secondo il ‘Food Climate Resource Network’, il 77% della soia coltivata è destinata al consumo umano, mentre il resto diviene mangime alimentare per allevamenti. Consumare carne e derivati più di una volta a settimana ha significato, per la generazione occidentale del boom economico, il raggiungimento di uno status quo che era riservato solo a ceti dal reddito altissimo. Ma garantire l’attuale disponibilità di carne e derivati in ogni supermercato e a ogni ora, alimenta la riproduzione industriale di animali da reddito a livelli mai conosciuti finora, con tutto quello che gli allevamenti intensivi bovini, suini e avicoli comportano rispetto al consumo di suolo, consumo di risorse idriche e persino inquinamento atmosferico. La produzione di carne bovina ha un’elevata impronta di carbonio, ma non è l’unico impatto ambientale che essa produce. Le flatulenze dei 3 miliardi di mucche che popolano il pianeta stanno rilasciando in atmosfera quantitativi di metano che aggravano l’effetto serra.
Mangiare vegetale per contrastare il cambiamento climatico
Il report di febbraio 2022 dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ndr) ci ricorda che abbiamo sfondato la soglia di 1,1 gradi in più rispetto al periodo tra il 1850 e il 1900 – un arco temporale in cui gli effetti della seconda rivoluzione industriale si sono concretizzati in fenomeni estremi come la celeberrima ‘nebbia di Londra’: la spessa coltre di Co2 derivata dalla combustione di carbone. Si tenga prsente, che Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Brasile, Argentina e Spagna sono i Paesi che consumano più carne in assoluto: in media più di un quintale l’anno a persona. Raggiungere un aumento di 1,5 gradi significherebbe rendere di lungo corso alcuni effetti del cambiamento climatico e irreversibili altri. Un’industria alimentare orientata esclusivamente alla produzione di vegetali non solo mitigherebbe gli impatti della tropicalizzazione del clima nelle aree miti, ma contrasterebbe la desertificazione delle savane e darebbe una ‘boccata d’ossigeno’ per gli abitanti di quei Paesi dove ancora si muore di fame. Con un ettaro di suolo destinato alla produzione di carne si sfamano a malapena due persone. La stessa superficie coltivata a riso e patate fa mangiare dai 19 ai 22 individui. Scegliere con la forchetta, a questo punto, potrebbe non essere soltanto un’opzione, ma una viva necessità.
QUI SOPRA: PIANTAGIONI DI SOIA E FORESTA AMAZZONICA (CREDITS BY KATE EVANS, CIFOR)
AL CENTRO: IL MOMENTO DELLA MUNGITURA IN UN ALLEVAMENTO INDUSTRIALE
IN APERTURA: SONO 3 MILIARDI I BOVINI DA REDDITO ALIMENTATI CON MANGIMI