Le tesi di Gianni Cuperlo appaiono un qualcosa di ‘avvinghiato’ a una forma di intellettualismo di difficile ‘decrittazione’, mentre la duttilità retorica e l’apparente pragmatismo di Matteo Renzi viene visto dagli italiani come una novità dotata di un approccio ‘futurista’, capace di coniugarsi con una buona capacità ‘esplicativa’ di temi e argomenti, assai lontana da ‘stilemi’ considerati antiquati o appartenenti a un mondo tradizionalmente distante
Mettiamola così: Matteo Renzi appare agli italiani, ormai ‘stravolti’ da 20 anni di democrazia percettiva e di ‘videocrazia’, molto più simpatico e assai meno ‘difficile’ da interpretare rispetto al pur interessante e preparato Gianni Cuperlo. Di ciò me ne dispiaccio alquanto. Non si tratta di un atteggiamento vendicativo da parte del sottoscritto, per via della mancata intitolazione di una via di Firenze alla memoria di Bettino Craxi. Tale questione ha avuto indubbiamente un suo peso nell’aver prodotto una prima serie di perplessità. Ma, in seguito, ne sono sorte altre. La scarsa capacità dimostrata da Renzi nel riuscire a distinguere le qualità politiche e le profonde motivazioni che mossero, a suo tempo, il pensiero ‘craxiano’ dalle contingenze di ‘sistema’ in cui l’intero Partito socialista italiano si ritrovò a operare, nel tentativo di gestire al meglio la propria coabitazione di governo con la Dc, rappresenta appieno la difficoltà generale di quasi tutto il popolo italiano nel non riuscire a cogliere verità politiche più profonde, senza pregiudizi e sotto un profilo di contenuti reali. Quest’incapacità di Renzi nell’approfondire una fondamentale fase della sinistra italiana fa il paio con la speculare superficialità con cui viene interpretato questo stesso ciclo storico dal centrodestra, il quale, pur avendo sempre riconosciuto ‘a parole’ le grandi capacità del leader socialista, nei fatti ne ha ripudiato la dottrina politica più elevata - il socialismo liberale - limitandosi a imitarne il ‘decisionismo’ in quanto mero ‘meccanismo’, come vuota forma di leaderismo priva di ogni incidenza effettiva, concreta, fattuale. Va da sé che Renzi non sia Berlusconi. Ma neppure questi è mai stato un Craxi. Tale ‘superficialità bifronte’ è ciò che ha generato tutta una serie di fenomeni assolutamente equivoci e demoralizzanti, che hanno lasciato il tempo che erano riusciti a trovare. Le tesi di Gianni Cuperlo appaiono un qualcosa di ‘avvinghiato’ a una forma di intellettualismo di difficile ‘decrittazione’, mentre la duttilità retorica e l’apparente pragmatismo di Matteo Renzi viene visto dagli italiani come una novità dotata di un approccio ‘futurista’, capace di coniugarsi con una buona capacità ‘esplicativa’ di temi e argomenti, assai lontana da ‘stilemi’ considerati antiquati o appartenenti a un mondo tradizionalmente distante. Ma tutto ciò non rappresenta affatto una buona notizia. Sottolineo e ribadisco: non nutro nessuna antipatia personale nei confronti del sindaco di Firenze. E spesso, molte delle sue ipotesi e idee risultano obiettivamente condivisibili. E’ il ‘meccanismo’ propagandistico di fondo che continua a non piacermi: quel ‘semplicismo sintetico’ che ha già generato il grande equivoco ‘berlusconiano’ e la tendenza verso una concezione ‘personalistica’ della democrazia. Questi problemi, in particolar modo nel Partito democratico, continuano a preoccuparmi moltissimo: lo affermo senza remore. Nel corso dell’estate appena trascorsa, mi è capitato di seguire una polemica ‘minore’, generatasi all’interno del ‘manicomio democrat’ tra il blogger Mario Adinolfi e la direttrice responsabile della web tv ‘Youdem’, Chiara Geloni. Una diatriba che ha palesato pienamente la stravagante fenomenologia di una politica ormai totalmente scevra da quei valori di lealtà e di sincerità che, invece, dovrebbero caratterizzarla oggi più di ieri. La repentina conversione della pur arguta Geloni dal ‘bersanismo spinto’ al ‘renzismo più sparato’ non può che essere rilevata negativamente, poiché combattere una battaglia politica, anche di minoranza o completamente rovesciatasi a nostro sfavore, dovrebbe rappresentare un segnale di coerenza e dignità, un punto d’onore da riconoscere ad amici, alleati e avversari politici di ogni genere e ‘sponda’. Invece, la tendenza della seconda Repubblica rimane questo modo ‘circense’ di effettuare continue ‘capriole’, senza che qualcuno ammetta mai di essersi sbagliato, di aver cambiato opinione rispetto alle posizioni precedenti, magari giustificando determinati mutamenti di ‘rotta’ con spiegazioni sincere, umanamente comprensibili, dettate da un nuovo contesto politico venutosi a creare. Questa piccola vicenda rappresenta una specifica ‘cartina di tornasole’ in merito agli evidenti problemi dei Partiti della seconda Repubblica, in cui tutti gli esponenti, anche quelli minori, continuano a procedere ‘in cerchio’ pur di non mutare praticamente nulla della loro realtà ‘partitica’ interna, né fare alcun concreto passo in avanti sul fronte dell’incisività politica reale. Si rimane sul terreno dei meri ‘voltafaccia’ astratti e improvvisi, dell’incoerenza comportamentale, dell’opportunismo ‘spicciolo’. Un fenomeno che tende a ‘ingessare’ i Partiti - tutti i Partiti, sia chiaro, non solamente il Pd - impedendo loro di riuscire a inseguire una società che, invece, si trasforma ogni giorno a velocità supersonica. Una forza politica moderna e degna di questo nome è tenuta a dimostrare la propria capacità di coordinare al meglio la società, in tutte le sue multiformi trasformazioni. Invece, sia il Pd, sia il Pdl restano ‘piantati lì’, in un ritardo sempre più palese ed evidente, col rischio di ritrovarsi abbandonati dai propri elettorati di riferimento a causa dei loro continui fallimenti e di uno scadimento sempre più clamoroso del proprio ceto dirigente. Questo genere di difficoltà ‘strutturali’ valgono per l’intero sistema politico, come dimostrato anche dal discutibile metodo 'cooptativo' utilizzato, sin qui, dal centrodestra italiano. Ma il Pd, nello specifico, possiede alcune ‘gabbie’ del tutto particolari, in cui le idee di Cuperlo, assai valide sotto un profilo di ristrutturazione del nostro tessuto produttivo e indirizzate a incidere veramente sulle sue ‘tare’ di fondo, appaiono troppo tradizionalmente ‘di sinistra’, eccessivamente cervellotiche e complesse, di difficile lettura per una popolazione totalmente ‘drogata’ da più di mezzo secolo di ‘clientelismo’ democristiano, cui si sono sommati altri 20 anni di vuoto propagandismo dalla schietta matrice aziendalista. La retorica ‘renziana’, insomma, ha il vantaggio di apparire più duttile e, al contempo, pragmatica. Ma rischia anch’essa di ritrovarsi rapidamente ‘bruciata’ allorquando verrà posta al vaglio della primissima esperienza di Governo, ovvero nel momento e nella misura in cui si comprenderanno le complessità più autentiche della condizione di fondo di questo Paese, insieme a tutte quelle difficoltà di fronte alle quali non ci si può limitare a rispondere mediante sintesi puramente formali, dettate dalla contingenza del momento, bensì attraverso un disegno complessivo di modernizzazione della società. Per concludere, a sinistra dobbiamo tutti quanti smetterla, una buona volta, di continuare a chiederci che ora è. E cominciare, invece, a spiegare agli italiani verso dove e in quale direzione si vuole andare. Altrimenti, anche la cultura progressista italiana, nonostante possieda alcune valide risposte di riformismo strutturale del nostro ‘sistema-Paese’, nonché un limpido orizzonte all’interno della futura unione politica dell’Europa, continuerà a rimanere prigioniera di quel ‘teatro dell’assurdo’ che è stata capace di costruire attorno e dentro di sé.