Alcuni giorni fa, una docente di Rovigo è stata oggetto di una vera e propria aggressione da parte dei suoi studenti: il panorama che da questi fatti ci viene offerto circa lo stato di salute di istituzioni fondanti la società civile, quali la scuola e la famiglia, impone una seria riflessione
Nel chiedere venia a Pier Paolo Pasolini per aver preso in prestito indebitamente le sue parole, il pensiero non può non andare alla professoressa di Rovigo che, alcuni giorni fa, è stata oggetto di una vera e propria aggressione da parte dei suoi studenti. Il panorama che da questi fatti ci viene offerto circa lo stato di salute di istituzioni fondanti la società civile, quali la scuola e la famiglia, impone una seria riflessione. Desidereremmo, in particolare, che una volta per tutte sociologi, psicologi e chi di dovere si sforzino di decodificare esattamente le oscure dinamiche sottese a fenomeni di bullismo, bossing o mobbing o, più semplicemente, di quotidiana e ordinaria violenza. Sarebbe estremamente interessante indagare su cosa agisca nella mente di coloro che decidono di iniziare la propria giornata allo scopo dei nuocere al prossimo e ricercare l’origine di questo incontenibile odio sociale, domandandosi quali siano i criteri in base a cui un carnefice sceglie la sua vittima. Ma soprattutto, è urgente chiedersi di chi sia la responsabilità di tutto questo. Ossia, se è realmente possibile che il naturale disorientamento scaturito dalla disgregazione, o più semplicemente dal mutamento, non sempre peraltro negativo, degli equilibri familiari rispetto al passato, possa aver determinato tali conseguenze. Sono domande alle quali da anni si attendono risposte che, puntualmente, non arrivano. Ogni qualvolta si tratta di sottoporre a un vaglio critico i consueti baluardi del perbenismo nazionale, ogni tentativo di intraprendere una seria autocritica cade miseramente nel vuoto. Recentemente, l’opinione pubblica si è scandalizzata per le parole proferite dal ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Valditara, reo di avere asserito che il soggetto colpevole di comportamenti prevaricatori debba umiliarsi nel chiedere scusa per le azioni commesse, sottoponendosi allo svolgimento di lavori socialmente utili. Immediatamente, è intervenuta una levata di scudi in piena regola a difesa del ‘bello e dannato’ in questione, evidentemente da parte di chi non ha mai sperimentato sulla propria pelle, o anche solo in via indiretta, cosa si provi quando la propria dignità viene ingiustamente calpestata. I benpensanti di cui sopra si sono appellati a improbabili finalità educative, che sarebbero frustrate se si punisse severamente il colpevole, salvo poi obliterare volutamente quanto esse siano state del tutto disattese nella formazione familiare e culturale di tali soggetti. Si trascura di considerare che non esiste rieducazione senza retribuzione, ossia senza l’emenda dell’interessato. E all’umiliazione di chi subisce una violenza, chi ci pensa? Chi si occuperà di riparare i danni fisiopsichici subiti da coloro che hanno vissuto tali soprusi? Di quel dolore scomodo, la società sembra volersene spesso lavare le mani, demandandone tutt'al più la cura al segreto dei reparti ospedalieri di neuropsichiatria, o all’impegno incalcolabilmente gravoso delle famiglie delle vittime, sempre troppo sole nel gestire gli indebiti disagi dei loro cari.
Così facendo, si contribuisce a rafforzare il mito di colui che agisce nell’ombra, che non ha bisogno di rispettare le regole che stanno alla base di ogni consesso civile, che ricorre sistematicamente all’abuso per conquistare credito presso i suoi simili. In fondo, sono i nostri figli. Non si può certo ammettere di aver sbagliato tutto nel crescerli e nell’educarli, di essere stati assenti, di non aver prestato sufficientemente tempo e ascolto alle loro richieste di attenzione, di averli indottrinati di consumismo, di slogan e di vuote apparenze. Molto più semplice rassegnarsi a considerare la prevaricazione, ormai: un modo d’essere, un costume sociale come altri, quasi un vezzo, una moda. E male che vada, esauriti tutti i possibili argomenti a suffragio, si può sempre colpevolizzare la vittima per non essere stata capace di difendersi, per non aver risposto al sopruso con pari violenza. Non stupisce, quindi, che la malcapitata professoressa di Rovigo sia stata rimproverata di non essere stata in grado di mantenere l’ordine in classe. Così come non stupisce la morbosa curiosità con cui l’opinione pubblica guarda agli usi e costumi di un immondo protagonista della cronaca giudiziaria, arrestato dopo trent’anni di latitanza.
Mentre ci domandiamo, alla luce dei fatti occorsi, quale sia il più efficace antidoto per contrastare e sconfiggere una volta per tutte la mafia e ogni forma di criminalità organizzata, il pensiero corre alle parole del Procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri, che auspica una restaurazione rigorosa e meritocratica del sistema scolastico. Una scuola in cui, più che elaborare improbabili progetti didattici, si torni a impartire minuziosamente l’insegnamento di basilari discipline scolastiche come la Storia, la filosofia, la letteratura italiana e straniera, la scienza in tutte le sue declinazioni: tutti strumenti imprescindibili per formare una mentalità aperta e sufficientemente forte per resistere a ogni tentazione di compromesso morale e per rifiutare qualsiasi forma di omertà. Insegnare ai giovani a fare squadra, più che a fare 'branco'. Abituarli a visualizzare le conseguenze che le proprie azioni possono produrre su se stessi e sugli altri, nonché far loro comprendere che tutto ha un prezzo, meno che la libertà di essere se stessi e il rispetto dell’altrui persona.
Insegnare che non esiste salvezza a buon mercato e che il mito del massimo risultato con il minimo sforzo è, in realtà, un’indecente mistificazione. Piuttosto, si deve riaffermare che il valore della libertà non risiede nel suo conseguimento, ma nello sforzo profuso per raggiungerla, come ci viene suggerito da una suggestiva immagine filosofica di ‘fichtiana’ memoria.
Forse, quando torneremo ad amare il viaggio più della meta, ad assaporare il nobile valore della fatica e dell’impegno quotidiano per realizzare una società inclusiva, solo allora potremo dire che una nuova alba di rinascita inizi a intravedersi all’orizzonte.