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Un excursus delle più interessanti rappresentazioni iconografiche del tema della Natività nell’arte cristiana delle origini (IV- XIV secolo)
Fedelissima all’essenza del racconto evangelico, la più antica rappresentazione pittorica che allude alla Natività, ubicata nella catacomba romana di Priscilla (Fig.1), raffigura la Vergine seduta con il Bambino sulle ginocchia, mentre il Profeta che le è accanto indica la stella, per ricordare il compimento delle profezie del Vecchio Testamento. Nell’arte cristiana la vera e propria rappresentazione della Natività compare, invece, piuttosto tardi, probabilmente in seguito all’istituzione della festività del Natale. Lo schema iconografico fu probabilmente elaborato per la prima volta in un’officina lapidaria romana. A Roma, infatti, si conserva la maggior parte degli esempi scultorei conosciuti, databili tra la metà e la fine del IV secolo d. C. È possibile che l’officina di cui gli studiosi parlano fosse ubicata sulla via Appia, la quale ha restituito al mondo un interessante frammento scultoreo, considerato da molti il prototipo pagano dello schema della Natività. Sempre la via Appia ci ha lasciato inoltre numerosi sarcofagi che raffigurano la scena, e conserva, nella catacomba di San Sebastiano, l’unico esempio superstite della pittura cimiteriale. Dal punto di vista iconografico, il racconto della nascita di Cristo è caratterizzato da alcuni significativi topoi (caratteristiche): la verginità della madre, la nascita nella grotta, la presenza della stella, l’arrivo dei Magi, la persecuzione del re, tutti riconducibili a un modello letterario in auge in Oriente nella narrazione di nascite divine, particolarmente di sovrani ed eroi, come Mitra o Mosé, e di tutte quelle figure a cui viene affidato il destino di trasformazione della storia dei loro tempi, presentate pertanto come un dono divino. Altro dato interessante è costituito dalle fonti letterarie che hanno influenzato il tema: dei quattro evangelisti, infatti, solo Matteo e Luca ricordano l’episodio della nascita di Cristo, proponendo la Natività come compimento delle profezie del vecchio testamento e sottolineandone la dimensione cosmica. Fuori da Roma, in epoca tardo-antica e altomedievale, la scena compare raramente manifestando comunque una dipendenza da modelli romani. Un esempio, a questo proposito, è costituito dall’immagine della Natività raffigurata sul sarcofago di Ambrogio (Fig.2), appartenente al gruppo dei sarcofagi a ‘porte di città’, così definiti perché collocano i personaggi sacri su uno sfondo urbano piuttosto complesso. Fin dalle origini lo schema della Natività prevede la presenza di alcuni elementi fissi, tra i quali la fasciatura del bambino, la mangiatoia, il bue e l’asino, che, per il loro valore simbolico, riceveranno nel tempo una notevole attenzione, sia iconografica sia letteraria. Del resto, già il Vangelo di Luca istituisce numerose corrispondenze fra l’episodio della Natività e quello della deposizione del Cristo, permettendo di individuare nelle fasce il simbolo di una condizione umana destinata alla morte. Non è un caso, infatti, che nelle prime manifestazioni del tema sussista una forte connessione tra l’immagine del Bambino fasciato e quella consueta di Lazzaro avvolto nelle bende, e che in alcuni casi la mangiatoia divenga molto simile a un vero e proprio sepolcro, come si vede nella pittura della catacomba di San Valentino a Roma. Particolarmente la mangiatoia, che viene menzionata di continuo nel Vangelo di Luca, assume un significato simbolico e, nei primi secoli del cristianesimo, venne sostituita spesso da un tavolo, una cassa o una cesta di vimini. Interessante è, a questo proposito, la variante della cesta, frequentemente attestata nella scultura e probabilmente da ricondurre all’influenza dell’antica leggenda popolare del trovatello, di cui un esempio è costituito dal racconto del rinvenimento di Mosé sulle acque e, successivamente, dalla vicenda del Messia, re dei Giudei. La variante del tavolo invece, che, come si vede su un sarcofago romano conservato al Museo Pio Cristiano, viene di solito rappresentato con un drappo o un lenzuolo, è da ricondurre all’immagine dell’altare, inteso dalla letteratura cristiana delle origini come un altare simbolico in chiara allusione al sacramento dell’eucaristia, laddove Cristo è identificato quale ‘pane vivente’ e ‘dei viventi’. Del resto, è noto che già nel III secolo la mangiatoia venisse mostrata come reliquia insieme alla grotta, da tempo localizzata in prossimità di Betlemme. Alla mangiatoia si lega, inoltre, la costante del bue e dell’asino, a cui i Vangeli canonici non fanno cenno. Come simboli della Natività, essi piuttosto traggono la loro origine dalle Sacre Scritture e precisamente dalla profezia dei profeti Abacuc (3) e Isaia (1,3), i quali ebbero un notevole influsso sulla catechesi dell’antica comunità cristiana: ‘Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende’ (Isaia 1,3). È tuttavia probabile che la definitiva collocazione dei due animali nella grotta della Natività sia dovuta alla grande diffusione dei Vangeli apocrifi, in particolare dello Pseudo-Matteo, redatto sulla base di alcune leggende popolari nel IV secolo d.C. Proprio i Vangeli apocrifi ebbero una notevole influenza nella costituzione del ciclo della Natività, le cui varianti iconografiche sono comunque poche. Lo schema sembra prediligere inizialmente l’episodio dell’adorazione dei pastori, che nelle prime manifestazioni del tema è ambientato all’aperto, come si vede nella Natività del sarcofago di Claudiano (Fig.3), oggi conservato al Museo Nazionale Romano. Una variante più complessa vede l’introduzione della Vergine, seduta pensosa accanto al Bambino, al riparo di una tettoia verso cui avanzano pastori e magi adoranti, come è visibile nella cripta di Massimino in Provenza. Non sappiamo invece quando fu introdotta la figura di Giuseppe, la cui immagine diviene identificabile con certezza solo sul finire del IV secolo d.C. A partire soprattutto dal V-VI secolo, il santo appare spesso in un’attitudine solitaria e meditativa, ai margini della scena, come si vede in una scena di Natività conservata al Museo Civico Medioevale di Bologna e in alcune rappresentazioni successive, tra le quali il mosaico di Jacopo Torriti a Santa Maria Maggiore a Roma (Fig.4) e la celebre pittura di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova (Fig.5). In pittura la Natività non compare prima della fine del IV secolo, come dimostra il già citato esempio della catacomba di San Sebastiano è la decorazione pittorica dell’ipogeo (una costruzione sotterranea) veronese di Santa Maria in Stelle. Tra il V e il VI secolo, quindi in epoca altomedievale, lo schema iconografico si trasforma notevolmente: la rappresentazione di tipo occidentale, con il Presepe posto sotto una capanna o una tettoia, è sostituita con una composizione di tipo orientale in cui l’avvenimento viene rappresentato all’aperto o in una grotta e la Vergine è raffigurata sopra un giaciglio. Un esempio, in questo senso, appare sulla formella della Cattedra episcopale in avorio ‘di Massimiliano’ a Ravenna (Figg. 6,7), un vero e proprio trono con struttura in legno ricoperta di placchette in avorio, probabilmente realizzato a Costantinopoli per il primo arcivescovo di Ravenna Massimiano (546-554). Contestualmente, compaiono i grandi cicli pittorici ispirati dai Vangeli apocrifi in cui la Natività viene accompagnata da altri episodi dell’infanzia di Gesù, tra i quali il più singolare e interessante è certamente quello della mano inaridita dell’incredula levatrice Salome (Fig.7). Un vangelo apocrifo - Il Protovangelo di Giacomo – narra infatti che una levatrice, mossa da un certo scetticismo nei confronti della presunta verginità di Maria, per verificare la veridicità dei fatti avesse introdotto un dito nella vagina della Vergine, ustionandosi la mano. Pentitasi, venne poi guarita da un angelo. Degno di rilievo è anche l’episodio del primo ‘bagnetto’ del Bambino, raffigurato per la prima volta in epoca altomedievale, alla metà del VI secolo, nelle pitture della catacomba di San Valentino a Roma. Successivamente, la scena ebbe una grande fortuna, come dimostrano le pitture medievali della chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio e della chiesa del Salvatore in chora (Kariye Camii) a Istanbul (Fig.8).