Pezzi di sculture e sassi neri in mezzo alla strada: così l’artista Flavio Tiberio Petricca ha lanciato la sua provocazione per attrarre l’attenzione dei passanti inducendoli a interrogarsi su alcune questioni. Ma una domanda sorge spontanea: siamo di fronte a una ‘reale’ proposta artistica o all’ennesima ricerca di visibilità?
Lo scorso 28 novembre a Roma, di fronte al Museo Maxxi (il Museo nazionale delle arti del XXI secolo) Flavio Tiberio Petricca, classe 1985, ha piazzato un bel po’ di teste mozzate e sassi neri. "Il petrolio che prende vita – sostiene l’artista - di contro alla consueta strumentalizzazione dell’oro 'nero' da parte della società capitalistica contemporanea, all’origine di numerosi eventi bellici, compreso quello che stiamo vivendo attualmente. Il petrolio che si purifica, che si rigenera e che mostra un nuovo volto di sé, presentato in una forma atavica e sensuale, scevra dai significati negativi che troppo spesso gli vengono attributi", precisa l'artista. Significati ai quali però, di riflesso, rimanda, inducendo il pubblico a porsi degli interrogativi sulla situazione storica attuale, ove il petrolio è divenuto l’origine, il centro, di numerose questioni (pensiamo, ad esempio, alla lotta al terrorismo dell'Isis, che controlla la maggior parte dei giacimenti petroliferi siriani, principale fonte di finanziamento dei terroristi). Un’installazione, quella del Petricca, connessa alla performance installativa progettata nell’ottobre scorso sempre a Roma per l’XI ‘Giornata del contemporaneo’, segnatamente presso le ‘Cinque sculture parlanti’. Giornata in occasione della quale, l’artista aveva realizzato delle sculture composte da sassi siliconati che, a suo dire, “cercavano di conquistare una voce, la voce del singolo per il singolo, quindi quanto ognuno con l’arte può o potrebbe fare per sé e per il pubblico, o cambiare il destino di alcuni luoghi lasciati abbandonati a loro stessi”. Il sasso come ‘campanello storico-estetico’, quindi. Come ‘emozione inaspettata', generata dalla collocazione dell’opera d’arte in un posto ‘improbabile’, tradizionalmente non deputato ad accogliere e contenere oggetti di valore artistico, come è successo, appunto, di fronte al Maxxi.
Il ‘museo fuori dal museo’ in Italia: alcuni esempi di installazioni a ‘cielo aperto’
Per carità, fin qui nulla di particolarmente innovativo all’orizzonte. Perché l’Italia e, in particolare, Roma vantano un’antica tradizione in materia di installazioni a ‘cielo aperto’. Come dimenticare, ad esempio, le solenni Mura Aureliane di Porta Pinciana impacchettate nel lontano 1974 da Christo e Jeanne-Claude, o meglio ‘Christo’, progetto artistico comune dei coniugi statunitensi Christo Vladimirov Yavachev e Jeanne-Claude Denat de Guillebon, fra i maggiori rappresentanti della Land art e realizzatori di opere su grande scala? Lavorando proprio sulla modificazione percettiva degli oggetti e dei luoghi, i due hanno inaugurato a Roma un nuovo modo di ‘fare arte’, rispetto al quale le più recenti provocazioni artistiche sono in parte debitrici. Tra queste, l'installazione del grande cubo messa in scena da Francesco Visalli nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2013 al centro del Circo Massimo. Un monolite biforme ‘abusivo’ e, allo stesso tempo, un omaggio all’arte di Mondriaan, che in quel contesto aveva la funzione di attrarre l’attenzione dei passanti e indurli a interrogarsi sul degrado della capitale (o dell'arte in generale). Oppure, Graziano Cecchini e la sua Fontana di Trevi rossa e le migliaia di palline colorate lasciate scendere dalla scalinata di Trinità dei Monti, in piazza di Spagna. O, ancora, per citare un altro caso romano più recente, i poster apparsi su alcuni muri della città che ritraggono un’inconsueta 'Pietà' laica, con Pier Paolo Pasolini come protagonista, pensata e realizzata dal francese Ernest Pignon-Ernest per interagire coi contesti, le memorie e i simboli storici del territorio. E potremmo citare altre migliaia di esempi, anche al di fuori del contesto geografico prettamente capitolino. Questo perché negli ultimi decenni, in effetti, l’opera d’arte sempre più spesso è ‘uscita’ dal tradizionale circuito espositivo, per lo più museale, e dalla rigidità dei suoi spazi, per stabilire un diretto contatto con l’ambiente naturale o urbano e con la popolazione locale. In alcuni casi sono nati dei veri e propri ‘musei a cielo aperto’. Si pensi, ad esempio, ai progetti di Urban art portati avanti nei quartieri periferici di Tor Marancia e San Basilio nella capitale, oppure nel quartiere Barriere di Milano, a Torino; alla ormai storica ‘Voliera’ realizzata da Giuliano Mauri nel Parco di Monza, i bellissimi ‘parchi d’arte’ disseminati in tutto il 'Belpaese' e costellati da installazioni artistiche, tra i quali il ‘Giardino Pietrificato’ in Emilia Romagna. Oppure pensiamo agli interventi di Fra.Biancoshock sullo spazio urbano milanese, con perfomance installative che hanno reso la città una sorta di tela entro cui l’artista si è espresso con sottile ironia.
Arte, pubblico e social media: alcune riflessioni
Come afferma Michele Costanzo nel suo volume ‘Museo fuori dal museo: nuovi luoghi e nuovi spazi per l’arte contemporanea’ (Franco Angeli Edizioni), la creazione di installazioni artistiche in contesti naturali o urbani consente agli autori di “comunicare un messaggio estetico-intellettuale attraverso un’interazione con il contesto” e “di risvegliare l’attenzione del pubblico nei confronti della realtà in cui vivono attraverso un’azione coinvolgente e partecipativa finalizzata alla riflessione”. Abusivi o meno, questo tipo di interventi sul territorio pongono, però, all'attenzione del pubblico e della critica una serie di quesiti. Non solo sul tema del degrado delle nostre città e sulla mancanza di politiche strutturate rivolte alla conservazione e alla tutela del patrimonio artistico e culturale italiano, come rilevato da Costanzo. Ma anche e soprattutto sul valore comunicativo dell'arte contemporanea e, in particolare, dell’installazione performativa in sé. La quale, in molti casi, si pone come obiettivo precipuo lo straniamento dell’osservatore al fine di suscitare un interesse mediatico tout court. Tralasciando quella che è la poetica del Petricca di turno, quindi, sorgono spontanei alcuni quesiti. In primis, su quale sia il confine (anche morale) tra lecito e illecito, legalità e illegalità, nel campo dell’arte urbana e dell’arte sperimentale in generale. E, al di là di quanto sancito dalla legge - che in molti casi prevede, appunto, un canone fisso per l’occupazione anche temporanea del suolo pubblico per attività di carattere culturale e artistico – se questo tipo di installazioni siano alquanto obsolete e superate, avendo alle radici una tradizione antichissima, che risale addirittura alle Avanguardie storiche dei primi anni del Novecento.
Inoltre, ci chiediamo: è davvero necessario intervenire sulla percezione visiva ed estetica del territorio, anche rischiando di inficiarla, per riflettere sullo stato di salute del territorio stesso e, più in generale, sugli aspetti storico-artistici ad esso correlati? Come si pongono in tutto ciò le nuove e crescenti strategie comunicative messe in atto dagli ‘addetti ai lavori’ (critici, curatori, galleristi) per sponsorizzare e sostenere i propri ‘adepti’, strategie sempre più basate sul linguaggio social del like, del tag e sulla condivisione mediatica di riproduzioni fotografiche e video? A cosa porterà, in futuro, questa esigenza di ‘social-condivisione’ finalizzata a veicolare l’arte anche a un pubblico ignorante in materia, nonché incentrata sul selfie selvaggio da ‘spararsi’ con l’oggetto di turno (un sassolino, come nel caso del Petricca, o un muro, un treno, come in molti episodi di Urban Art), e da postare rigorosamente su Instagram e Facebook? Siamo di fronte a un fenomeno positivo in quanto, volente o nolente, consente la fruizione del prodotto artistico anche da parte di un pubblico meno edotto, o al riflesso di una ‘pochezza intellettuale’, di un’inconsistenza contenutistica e della totale assenza di originalità in certe ‘scelte’ artistiche e curatoriali contemporanee? C’è della ‘sostanza’, nella maggior parte di questi progetti, o siamo solo di fronte al segno tangibile dei tempi moderni, dove tutto, anche un processo creativo, passa necessariamente per il selfie e per i social media? Laddove, in risposta al senso di solitudine e di precarietà con cui ormai da tempo ci troviamo a convivere, vi è un infinito bisogno di ‘condivisione collettiva’, di richiamo dell’attenzione, di esibizionismo più o meno latente e di autoaffermazione del proprio ‘Io creativo’? Infine, dove stiamo andando, davvero, noi critici, curatori e giornalisti, quale tipo di ricerca vogliamo suggerire al pubblico? Perché appare evidente che, oggi più che mai, una proposta artistica con-vincente, per trovare 'spazio' e sopravvivere nel tempo, debba godere anche della giusta dose di notorietà e passare spesso per i concetti di ‘provocazione’ e ‘stupore’. Ma a quale prezzo? Vogliamo veramente credere che la validità di un progetto debba passare dal ‘like’ collettivo e di massa? O possiamo ancora sperare che, anche ai nostri giorni, nella società del ‘Grande Fratello’ e dell’ ‘Isola dei famosi’, un’opera d’arte abbia la sua credibilità e valenza a prescindere da un effettivo riscontro mediatico? Al pubblico (?) l’ardua sentenza.