Il mensile di informazione e approfondimento che
intende riunire culturalmente il nostro Paese nel pieno rispetto di tutte le sue tradizioni, vocazioni e ispirazioni ideologiche e politiche.
diretto da Vittorio Lussana
Area Riservata
21 Novembre 2024

Dopo il carcere, una nuova vita è possibile?

di Gaetano Massimo Macrì
Condividi
Dopo il carcere, una nuova vita è possibile?

Studentessa si laurea con il massimo dei voti e vince anche una borsa di studio. Un modello da seguire? Normalmente, sarebbe così. Se non fosse che la ragazza in questione è Elisabetta Ballarin, condannata a 23 anni per l'omicidio di Mariangela Pezzotta, insieme agli altri membri delle 'Bestie di Satana'. Infuria la polemica. Perché tanto sconcerto di fronte a casi come questo, in cui la giustizia segue il percorso tanto auspicato da tutti: reato - certezza della pena - espiazione - reinserimento? Quanto siamo liberali quando i problemi ci riguardano particolarmente da vicino?

Tutti reclamiamo giustizia quando subiamo un torto, o vorremmo che ‘giustizia sia fatta’ anche quando non siamo i diretti interessati. La semplice regola del ‘chi sbaglia paga’ è quasi percepita come la necessaria panacea di tutti i mali della nostra società ‘errata’, soprattutto perché, alla fine, almeno qui da noi in Italia, l’andazzo sembra essere un altro. L’opinione comune viaggia su un motivo ormai ben noto da anni: quello del ‘tanto pagano solo i soliti’, del ‘ma alla fine uscirà di galera prima del tempo’ e, per finire, ‘condanna ingiusta, troppo pochi quegli anni’. Bene, ora riflettiamo: Elisabetta Ballarin si è laureata con il massimo dei voti e ha pure vinto una borsa di studio. Chi è la Ballarin? Una ragazza di 27 anni che, nonostante la condizione di ‘ristretta’, è riuscita a ottenere 110 e lode all’università. Brava, quasi ci si dovrebbe commuovere: un autentico messaggio di speranza per tutti coloro che vivono in carcere, attendendo di scontare la pena. Il suo dovrebbe essere un chiarissimo esempio di come la giustizia, quando segue il suo corso, svolge in pieno la sua doppia funzione: detenere in galera i soggetti pericolosi per la società per restituirli ‘rinnovati’, espiati, pronti per ricominciare onestamente una nuova vita. Peccato, però, che la Ballarin non abbia borseggiato un turista americano su un autobus affollato per il centro di Roma, ma si sia macchiata di colpe ben più gravi: concorso in omicidio. Assieme alle ‘Bestie di Satana’ (un gruppo di assassini della provincia di Varese) ha contribuito a portare a compimento un delitto in cui è scomparsa per sempre la giovane Mariangela Pezzotta. Così, mentre la vita della povera 25enne si spegneva sotto un sol colpo di fucile in volto e sotto i colpi di badile mentre veniva sepolta viva, quella di Elisabetta continuava. In galera, ma continuava. Alla Ballarin è stata offerta ancora una possibilità: vivere. Vivere dentro le ristrette mura di un carcere, ma vivere. E da lì dentro, Elisabetta si è impegnata. Ha iniziato a usufruire dei permessi premio per seguire le lezioni. Per 4 giorni alla settimana è uscita dal carcere per recarsi all’Accademia di Santa Giulia, fino alla discussione finale della tesi. Ora, che ci piaccia o no, quella ragazza, omicida, condannata a 23 anni di carcere, è riuscita dove molti nostri figli, che non lavorano ma pretendono una ‘lauta paghetta’, che volano a Ibiza per riposarsi dalle ‘fatiche’ di esami (in)sostenuti, ancora non sono arrivati e, probabilmente, mai arriveranno all'obiettivo. ‘Si’, ‘ma’, ‘però’, ha partecipato a un omicidio. Non ce ne vogliano i familiari della vittima, ai quali mai nessuno e alcun tipo di condanna potrebbe restituire una felicità sottratta anzitempo, ma ci chiediamo: ma come? Prima pretendiamo giustizia, chiediamo che il colpevole marcisca in galera perché è là che deve stare, anche se poi gli apriamo spiragli di luce, consapevoli che solo passando anni in gattabuia si possa, alla fine del percorso, riscattare e trovare la sua risocializzazione e, alla fine, polemizziamo se una ragazza condannata per concorso in omicidio si sia laureata semplicemente perché ha usufruito di quanto la legge le consente? A parte l’errore, gravissimo, di cui si è già macchiata e per cui sta scontando la pena, cosa ha commesso contro la società Elisabetta Ballarin? Ha rispettato le regole. Quelle che certi benpensanti vorrebbero far rispettare ‘sempre ai soliti’ e mai a loro stessi. Anche questo ci pare un ‘leitmotiv’. La Ballarin ha ricevuto una condanna e pure pesante, pertanto non meriterebbe un ulteriore ‘aggravio’ di pena. Lasciamola stare nel suo ‘purgatorio’. Come e quando uscirà, cosa farà, saranno problemi suoi. L’importante è che, scontata la pena, possa tornare a una vita normale. E se quel pezzo di carta su cui ha sudato per anni (“È stata dura, il primo anno non ho potuto seguire le lezioni, poi ho ottenuto il permesso per frequentare: didattica museale, grafica e comunicazione. È stato impegnativo, ma ne valeva la pena”) le servirà a questo scopo, ben venga. L’importante è che ‘giustizia sia stata fatta’. Perché ora non dovremmo essere, non dico contenti, ma per lo meno sereni? Come spesso accade, il confine che separa il giusto dall’arrogante è molto labile. Facile sparare a zero sulla Ballarin. Eppure, il padre della Pezzotta, appresa la notizia della semilibertà della Ballarin, ha dichiarato: “É giusto che Elisabetta si rifaccia una vita, è giusto che alla sua giovane età le venga data una seconda possibilità: so che frequenta l'università, che ha buoni voti, dunque è una cosa bellissima. Le auguro ogni bene”. Il coraggio e la forza di un padre del genere fanno riflettere, di fronte all’orrore del delitto commesso. “Se mi guardo attorno”, ha specificato, “scopro sempre qualcuno che, nonostante tutto, sta peggio di me”. Semplice, quasi banale nella sua coerenza, ma così differente dall’opinione che abbiamo riscontrato tra i ragazzi, intervistandoli per strada. Gabriele, 23 anni, studente di medicina, non ci sta: “Ma che condanna è? Doveva stare 23 anni e dopo 7, meno della metà, già è libera di uscire, studiare e trovarsi un lavoro”? Con toni più pacati, qualcuno esprime la stessa preoccupazione: “Dopo la laurea in legge”, dice Stefania, 29 anni, “con grandi sacrifici e vari tentativi ho superato l’esame di Stato per diventare avvocato. Credo che la Ballarin dovrebbe scontare prima la sua condanna per intero e solo dopo rifarsi una vita”. Evidentemente, la legge lo consente, facciamo notare. A quel punto, Stefania ammutolisce, riflette un po’ e, alla fine, osserva: “Si, non lo so questo, ma penso anche ai familiari della vittima”. Speriamo legga le parole del padre. Chiara studia psicologia, ha 22 anni. Ha espresso il parere più severo: “Quella non si è pentita. Non bastano alcuni anni per dimenticare un fatto così grave. Qualcuno si pentirà di questa scelta. Meritava una pena più severa”! Inutile riportare i riferimenti e i paragoni al recente ‘caso Corona’. I nostri ragazzi ci sono sembrati fondamentalmente o poco attenti al caso, o superficiali nel valutare il grado di giustizia che essi stessi richiedono e pretendono. Un solo parere ‘favorevole’ è giunto da Andrea, 25 anni, studente di Scienze politiche e gelataio nel centro di Roma: “Mio padre ha trascorso 15 anni in galera. Avevo 8 anni quando è uscito. Ricordo la difficoltà che ha avuto per impiegarsi. Alla fine, il ‘giro’ che sarebbe stato costretto a frequentare se fossimo rimasti a Lecce sarebbe stato lo stesso”. Andrea ci ha raccontato delle peripezie, delle voci della gente, del salvifico viaggio verso Roma, dove il padre si è ricostruito una vita, consentendo a lui di crescere come tutti i figli ‘normali’. Tutti, indistintamente, abbiamo diritto alla felicità, così come alla giustizia. Ma vi sono compresi anche gli emarginati e i reclusi. A tutti dovrebbe essere offerta la possibilità di trovare una strada che segua quelle categorie. Anzi, soprattutto a coloro che sono rimasti indietro dovremmo offrire garanzia di potersi rimettere in cammino e recuperare. Non è questo il senso della giustizia? O forse, sotto certi bisogni si celano subdole invettive contro quella stessa legge che si invoca, a tratti, come fosse una forca? Troppo individualismo circola tra i nostri ragazzi, quasi come se esibissero il loro essere liberi e felici “come uno stile di vita”, secondo quanto osservava perfettamente Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale. E non si sono ancora resi conto che ogni cosa va sudata e meritata: la lode all’esame e la vacanza a Ibiza, esattamente come l’ora d’aria a ‘Regina Coeli’, come i permessi di semilibertà di Elisabetta Ballarin. Per finire, fugando i dubbi di qualcuno che, di fronte al sacrosanto diritto di essere liberi e felici vorrebbe far notare che, tuttavia, Mariangela Pezzotta e con lei tutte le vittime di omicidi, quel diritto lo hanno perduto per sempre, ci sentiamo di rispondere così: la perdita di un’anima non si compensa con il recupero di un’altra. Mai. Ma se ciò accade, cioè se il carnefice riesce a ritrovare se stesso, vorrà dire che il codice di giustizia che ci siamo dati e il codice morale della società sono giunti vicini alla maturità. Teniamoci stretto il sistema di pena che abbiamo costruito nei secoli. E’ imperfetto, lo era all’origine e lo sarà sempre, come tutte le cose umane. Ma possiamo migliorarlo. E’ bella la libertà, quando vi possiamo aspirare.
Detenuti riabilitati e nonDopo la condanna del carcere, il problema vero è rappresentato dalla fase successiva. Il percorso di inserimento nella società per la restituzione alla ‘normalità’, è una fase cruciale, che assume importanza fondamentale per chi si vede restringere la libertà personale temporaneamente tra quattro mura. Un’importanza pari a quella con cui è necessario condannare i soggetti che hanno sbagliato. Queste certezze sono pilastri della civiltà del diritto, ma spesso non vanno di pari passo. Casi di detenuti famosi, come quello recente di Elisabetta Ballarin, membro delle ‘Bestie di Satana’, suscitano reazioni nervose nell’opinione pubblica, pronta invece a condannare sempre e comunque. Ammettiamo che fa un po’ ‘strano’ immaginare omicidi, serial killer, stupratori tra i banchi di un’aula universitaria, o intenti a svolgere un tranquillo lavoro da onesti cittadini. Forse dovremmo compiere uno sforzo, non di immaginazione, ma di riflessione, per capire che chi ha sbagliato e ha pagato, poi ha diritto a rifarsi una vita, ritornando un buon cittadino. La storia della Chiesa, del resto, è piena di esempi di santi la cui vita precedente non era votata alla castità. Certo, non si tratta, in questi casi, di santi. Anzi, a volte le storie appaiono abbastanza differenti: non sono esattamente modelli da seguire o esempi di buona giustizia. Ma al di là delle opinioni se tutto ciò sia giusto o meno, vogliamo elencare alcuni casi ‘famosi’. La speranza è che facciano riflettere i lettori. A parte la Ballarin, (di cui ci siamo occupati nel servizio, ndr) per rimanere in tema ‘Bestie di Satana’ ricordiamo, tra gli altri membri, Nicola Sapone, condannato, oltre che per il caso Pezzotta, per il doppio omicidio di Fabio Tollis e Chiara Marino. Sapone è diventato un blogger e collabora con un giornale online: ‘La Voce d’Italia’. Scrive e racconta della vita del carcere. Il suo primo articolo, ironia del caso, è stato intitolato ‘Messa’. Attraverso la finestra di internet, l’ergastolano (condannato a due ergastoli) ci tiene a ribadire la sua innocenza. Il direttore de ‘La Voce d’Italia’ dribbla le critiche, sostenendo che, nonostante la condanna, non sia stata ancora fatta piena luce sul caso. Degli altri membri non si hanno grandi notizie. Andrea Volpe, il reo confesso de ‘le Bestie’, anche lui ha abbracciato la fede, convertendosi a quella battista nella speranza di uscire a breve. E Paolo Leoni, il vero leader, ha abbandonato il genere musicale ‘metal’ per il ‘rap’, componendo pezzi per il suo libero sfogo. Così riportano le cronache. Ricordiamo, inoltre, Annamaria Franzoni, la mamma condannata per l’omicidio del figlio Samuele. Ella prosegue la sua vita in carcere, usufruendo di quanto la legge mette a sua disposizione. Per mezzo dei sei permessi mensili esce dalla prigione per incontrare il marito, Stefano Lorenzi. Non frequenta corsi di nessun genere e grado. Ha una cella tutta per sé e il suo unico pensiero è quello di “essere dimenticata”. Sconvolse le cronache il caso di Novi Ligure di ‘Erika e Omar’: Erika De Nardo era ancora diciassettenne quando si scagliò contro la madre e il fratellino di appena 11 anni, aiutata da Omar Favaro. Quest'ultimo, secondo le ultime notizie rintracciabili, lavora come barista ad Aqui Terme e, come la Franzoni, desidera “solo essere dimenticato”. Erika, invece, la ‘principessa’, come l’hanno ribattezzata le sue compagne di cella, anche lei, come la Ballarin, si è laureata con un sonante 110 e lode in Filosofia. Oggi è più serena, vorrebbe sposarsi e avere dei figli. Dopo dieci anni ha intenzione di ricominciare da capo. Anche se ha ammesso che non è facile: “Non ne posso più, c'è sempre qualcuno che mi riconosce e mi tormenta”. Vive da sola in una piccola villetta, ma non lavora, perché “non posso lavorare e guadagnarmi da vivere come gli altri". Ogni tanto offre aiuto presso una selleria, “ma non è un lavoro vero”. I suoi vicini sanno chi è, ma l’hanno accolta come una persona normale. Con un po’ coraggio, tutti dovremmo ‘fidarci’ di chi ha pagato, anche se l’efferatezza di certi delitti rende difficile pensarlo. Forse è soltanto la ribalta della cronaca che fa assurgere a divi distorti questi personaggi, facendoci percepire in maniera macabra l’errore che hanno commesso e che, invece, in fondo loro vorrebbero solo dimenticare, dentro e dopo il carcere, perché è giusto così. La nostra giustizia non è giusta nel senso biblico del termine. Ma queste sono le migliori regole del gioco che abbiamo costruito: o le si rispetta, o se ne rimane fuori. I pregiudizi della gente non hanno alcun fondamento. Impediscono spesso a molte persone di riprendere in mano le redini della propria vita, persone che, il più delle volte, non hanno nessuno a cui appoggiarsi una volta ‘fuori’. Il rientro a casa non sempre si svolge nella serenità. E trovare un lavoro non è che uno dei tanti ‘puzzle’ cui si deve fare i conti. Potremmo aggiungere il resto: gli affetti familiari, gli affitti, gli amici. In questo contesto, davvero complesso, se aggiungiamo i nostri pregiudizi non facciamo altro che complicare la vita agli ex detenuti. E a nulla, forse, saranno valsi gli anni di pena trascorsi, a nulla varranno le agevolazioni fiscali per le imprese che assumono detenuti, a nulla varrà questo nostro sistema e il nostro modo di essere, sentirci, proclamarci liberi.
(www.laici.it)


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
EDITORE: Compact edizioni divisione di Phoenix associazione culturale