Il 18 settembre scorso l'assemblea tenuta del personale Mibact presso la Soprintendenza archeologica di Roma ha comportato la chiusura temporanea di diversi siti archeologici capitolini, come l’anfiteatro Flavio e il Foro Romano, generando numerose polemiche e poca chiarezza
Diritto di sciopero sì, diritto di sciopero no. Sembra essere questo il grande ‘leit motiv’ degli ultimi mesi, il punto cruciale di un più ampio dibattito, che tocca i temi della libertà individuale e collettiva, e investe il nostro Paese in più settori, specialmente, stando alle ultime vicende, della cultura e dei beni culturali. È del 18 settembre scorso, infatti, la notizia della famosa e discussa assemblea tenuta da parte del personale Mibact, indetta dalle 8.30 alle 11.30 circa, presso la Soprintendenza Archeologica di Roma, che ha comportato la chiusura temporanea di diversi siti archeologici capitolini, come l’anfiteatro Flavio e il Foro Romano. Un’assemblea, a quanto pare, ‘regolarmente autorizzata’ dallo Stato, che tuttavia ha provocato diversi disagi ai turisti in visita a Roma e in coda presso il noto monumento ‘simbolo’ della Capitale, il Colosseo. I rappresentanti dei sindacati hanno spiegato che, per dare la possibilità a tutto il personale del Ministero dei beni culturali di poter partecipare alla riunione, si sarebbe deciso di chiudere per poche ore tutti i siti della Soprintendenza. L’assemblea in questione, che – si legge nel comunicato pubblicato sul sito ufficiale della Federazione Intesa FP, Coordinamento beni culturali – verteva su numerosi argomenti, tra i quali il pagamento degli arretrati, la salubrità dei locali e il piano assunzionale in vista del prossimo Giubileo, è stata ampiamente criticata dal ministro del Mibact, Dario Franceschini, e dal premier Matteo Renzi. Proprio quest’ultimo, di concerto con Franceschini, dopo aver ‘cinguettato’ su twitter confermando il suo ‘No’ alla "cultura ostaggio di QUEI (chi?) sindacalisti", avrebbe risposto a tale, ‘malevole iniziativa’ promuovendo un decreto legge che inserisce i musei all’interno degli ‘servizi pubblici essenziali’. Un provvedimento, se vogliamo, anche lecito, che pone musei e siti archeologici italiani allo stesso livello delle scuole e degli istituti sanitari. E che di fatto, in caso di proclamazione di scioperi, impone ai lavoratori dipendenti che prestano attività presso i Beni Culturali, pubblici e privati, il confronto con la Commissione di Garanzia dello Sciopero. Aprendo alla possibilità che l'Authority possa anche decidere in favore della sospensione o del differimento dell’astensione o addirittura precettare i lavoratori interessati nel caso di effettuazione dello sciopero, facendo scattare delle sanzioni. Fin qui, nulla di sbagliato: va bene dichiarare la cultura un servizio essenziale. Il provvedimento, però, rischia di mettere sul banco degli imputati non tanto i sindacati, ma il Governo e il ministro in carica. Perché l’accesso alla cultura risulta negato, più che dalle assemblee e dagli scioperi dai tagli ai fondi attuati dai vari governi che si sono succeduti dal 2008 ad oggi. Ed è proprio questo il nodo cruciale di tutta la ‘vicenda Colosseo’. A Roma, in questi giorni, stiamo guardando un film ‘già visto’, che ripropone esattamente quanto accaduto a Pompei nel mese di luglio. Un film che attribuisce la ‘colpa’ dei malfunzionamenti connessi ai servizi pubblici dell’Urbe, all’attività di chi, nella fattispecie, svolge ruoli e mansioni che nulla hanno a che vedere con la gestione effettiva della città stessa. In effetti, come si apprende facilmente dalle fonti ufficiali, in questo caso, come per l’analogo episodio campano, i rappresentanti sindacali avevano avvertito per tempo della possibile chiusura dei siti archeologici in questione (addirittura, l’avvenuta comunicazione era stata inoltrata una settimana prima, l’11 settembre). Ed è stata proprio la Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica ad autorizzare l’assemblea, diramando però l’informazione circa 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse. Nulla di illecito e improvvisato, quindi. La verità è che non si è operata un’adeguata informazione sulla questione: i cartelli non sono stati posizionati a ridosso dei siti con sufficienti giorni di anticipo, non si è pensato ad attrezzare info-point che spiegassero la situazione, non vi è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali delle aree archeologiche, se non a estremo ridosso dell’assemblea. Tutto ciò, malgrado l’amministrazione fosse a conoscenza dei fatti da circa una settimana. Stando così le cose, è forse lecito domandarsi: di chi è davvero la responsabilità per ciò che è accaduto al Colosseo? Di chi è la ‘colpa’ se i turisti hanno fatto la coda per vedere un monumento che la stessa amministrazione sapeva sarebbe rimasto chiuso al pubblico, anche se per poche ore? Perché quei turisti hanno appreso la notizia solo da un cartello affisso ai piedi dell’anfiteatro Flavio? E, soprattutto, come può essere possibile che, per l’ennesima volta, chi ci governa sia stato capace di ‘rigirare la frittata’, attribuendo l’origine dei disagi sorti al Colosseo all’assemblea sindacale e ai lavoratori che vi hanno presenziato? Come si spiega che in un Paese democratico un premier si possa permettere di ‘generalizzare’ e attaccare, pubblicamente e arbitrariamente, sui social network il lavoro dei sindacati che, ricordiamo, sono enti democratici nati allo scopo di tutelare i diritti dei lavoratori?
Certo, che la gestione del ricco patrimonio storico-archeologico in Italia fosse già da molto tempo in uno ‘stato agonizzante’, ce ne siamo accorti un po’ tutti. Ma che le responsabilità ricadessero nelle mani dei sindacati, e non dello Stato, proprio non potevamo immaginarlo.