L’ordinamento giuridico italiano non obbliga, né tantomeno impone, un’adesione incondizionata al pacifismo nonviolento: i cittadini non solo hanno il diritto, ma addirittura il dovere di resistere e di difendersi nei casi di aggressione, persino nei confronti dello Stato e dei suoi organi istituzionali, quando questi attentano alla legalità costituzionale
Le vicende di cronaca che hanno visto di recente la configurazione del reato di ‘eccesso di legittima difesa’, in realtà appartengono a un dibattito dottrinario che si protrae da lungo tempo. La legittima difesa, infatti, è una fattispecie giuridica di cui ci si può avvalere in caso di pericolo per la propria vita, o di quella di un proprio congiunto. Quest’ultimo termine comprende anche amici e conoscenti stretti, come vicini di casa o persone conosciute e stimate all’interno della propria comunità di appartenenza, per il loro grado di onorabilità e onestà morale. Dunque, non si tratta di un principio ristretto esclusivamente a familiari in difficoltà, o di situazioni legate a una violazione di domicilio, bensì di una questione che periodicamente riaffiora alla ribalta delle cronache. Vi è stato un tempo – più o meno intorno alla metà degli anni ’70 del secolo scorso – in cui erano proprio le sinistre, in particolar modo alcuni ambienti del Pci, a sollevare la diatriba. E una parte dell’intellighentia progressista di allora cercò persino di approfondirne gli ambiti giuridici e penali mediante libri e opere cinematografiche di un certo rilievo, come per esempio l’eccellente film di Giuliano Montaldo ‘Il giocattolo’, con le splendide interpretazioni di Nino Manfredi e Vittorio Mezzogiorno. La facoltà di intervenire nel corso di una rapina o di un crimine in cui è in gioco la nostra vita o quella del nostro prossimo discende, infatti, dal cosiddetto ‘diritto di resistenza’. Un principio implicitamente, ma sostanzialmente, accolto nella nostra Costituzione, che rappresenta l’estrinsecazione sostanziale di un altro principio: quello della sovranità popolare, sancita dall’articolo 1 della Costituzione, il quale informa tutto il nostro ordinamento. La sovranità può infatti essere esercitata in modo diretto, attraverso i fondamentali diritti di libertà garantiti espressamente dalla Carta costituzionale, ma anche in modo ‘indiretto’, cioè attraverso lo ‘Stato-apparato’ (la pubblica amministrazione), la cui attività non può essere in contrasto con la sovranità popolare. Pertanto, quando lo Stato esprime una volontà contraria a quella del popolo, spetta a questo, quindi ai cittadini, singolarmente o collettivamente presi, il diritto di riappropriarsi della sovranità per ripristinare la legalità e difendere le istituzioni democratiche medesime. In pratica, quando un Governo, pur instauratosi legalmente tramite elezioni, agisce al di fuori della propria legittimazione, che deriva dalla sovranità popolare espressa, appunto, con le consultazioni politiche, i cittadini, cioè gli effettivi titolari del principio di sovranità, possono, anzi debbono, attivarsi per ripristinare la legalità violata, facendo valere il proprio ‘diritto di resistenza’. Se non fosse consentito di ricorrere a tale diritto, che vale anche per i singoli individui e non soltanto di fronte a fatti instaurativi gravi (colpi di Stato, rivoluzioni e guerre civili) il principio della sovranità popolare sarebbe, di fatto, privo di significato. Nei testi di procedura penale, il caso proposto al fine di configurare con un esempio la fattispecie concreta del diritto di resistenza è proprio quello del malfattore che avvicina la propria vittima brandendo un’arma e minacciandolo con la classica frase: “O la borsa, o la vita”. La vittima della tentata rapina non è affatto tenuta a dimostrare una coerente fede pacifista in senso filosofico o addirittura ideologico, se tale sistema di valori non appartiene al proprio orizzonte culturale o di opinione: messa di fronte a una scelta imposta con la forza, essa ha tutto il diritto di resistere non soltanto rifiutando il ricatto, bensì mettendo in campo tutte le iniziative personali che più ritiene opportune per difendere se stesso e i propri cari, amici o familiari che siano, casomai questi si ritrovassero coinvolti anche semplicemente per caso. Una persona o, più in generale, il singolo individuo ha diritto di resistere da ogni tentativo di rapina o di estorsione, attraverso metodi che non ledano la vita e il diritto altrui. Il discorso si complica allorquando entra in scena un’arma da fuoco. Nel caso la detenzione di questa sia autorizzata dalle norme vigenti e il possesso rientri negli obblighi di legge che ne regolano l’utilizzo, subentrano una serie di procedure che, pur non prevedendo il ‘fuoco’ immediato, consentono al cittadino di resistere a un reato commesso ai suoi danni tramite l’estrazione dell’arma stessa, l’esclamazione di un primo avvertimento ‘a voce’ e lo sparo di un colpo in aria a titolo intimidatorio. Infine, è prevista la possibilità di sostenere un conflitto a fuoco, anche se solo in quanto ‘risposta’ difensiva ai colpi altrui. In buona sostanza, immediatamente dopo il primo colpo esploso da un malintenzionato, il cittadino aggredito è autorizzato a rispondere, evitando - se possibile - di colpire il malvivente in punti del corpo considerati ‘vitali’: la testa, il cuore, la gola e i polmoni. La resistenza dei cittadini, insomma, è uno strumento fondamentale, seppur eccezionale, di garanzia dell’ordinamento costituzionale, anche se non espressamente stabilito da un preciso articolo. Inoltre, il dovere di fedeltà alla Costituzione sancito dall’articolo 54 comporta l'obbligo di non obbedire alle leggi che sono in contrasto con la Costituzione stessa. Pertanto, quando si compiono, da parte di qualunque organo costituzionale, fossero anche il Governo o il parlamento, atti di eversione dell’ordine costituzionale, non soltanto si configura il diritto, ma addirittura il dovere di resistenza da parte della collettività. Un diritto che può dispiegare i suoi effetti sia nei casi individuali, sia in quelli collettivi. E persino in forme ‘attive’, purché attuate secondo modalità e procedure tese a non ledere i diritti fondamentali di altri individui. Ciò vale sia quando lo Stato realizza materialmente un’attività contraria ai principi fondamentali della Costituzione, come per esempio intraprendere una guerra offensiva o illegittima, cioè decisa al di fuori degli organismi internazionali, sia quando invece è il singolo cittadino a doversi difendere da tentativi tesi a ledere le proprie libertà individuali e private, in quanto ‘extrema ratio’ in grado di impedire che venga commesso un reato e ripristinare la legalità. Quando la vita di una persona o di un nucleo familiare è in pericolo, poiché minacciati e presi in ostaggio da pericolosi banditi penetrati nella loro proprietà, se si è in possesso di un’arma e di un’autorizzazione amministrativa a usarla, lo si può fare. Soprattutto e prioritariamente per cercare di mettere in fuga i criminali in oggetto, spaventandoli con un colpo in aria, oppure richiamando l’allarme delle forze dell’ordine. E, nei casi più estremi, se si è dotati di una buona ‘mira’ ed è in gioco la vita di un vicino di casa o di qualcuno suoi familiari – donne o bambini - si può anche rispondere al fuoco al fine di ferire l’aggressore, impedendogli di commettere ulteriori reati. In conclusione, l’ordinamento giuridico italiano, negli ambiti del diritto penale, prevede l’eccesso di legittima difesa solo in quei casi di risposta ‘palesemente sproporzionata’ rispetto all’aggressione in atto. Ma per principio generale, esso non obbliga affatto a un’adesione obbligatoria e incondizionata al moralismo pacifista: se il singolo individuo non vuole diventare vittima di un crimine, egli può resistere contro ogni tentativo di offesa, difendendosi legittimamente. Persino nei confronti dello Stato.