La lentezza delle nostre opere infrastrutturali è il vero ‘tallone d’Achille’ della mancata ripresa economica italiana, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno
I recenti disastri dei lavori autostradali e i continui lavori in corso della ‘Salerno–Reggio Calabria’ riportano agli onori della cronaca una annosa riflessione: saremo mai in grado di concludere un’opera viaria senza strascichi, né polemiche? Per scoprire un progetto apprezzabile, bisogna risalire fino agli antichi romani e alle loro strade consolari. Possibile non si abbia un precedente storico più recente? C’è da dire che, quando fu fatta l'Italia unita, i nostri governanti si ritrovarono, anche su questo piano, un’eredità che già rispecchiava una differenza tra nord e sud del Paese: i due terzi delle strade si trovavano nel settentrione. E, di queste, solo una piccola parte era davvero praticabile. Quel poco che c’era in Lombardia era stato il frutto del governo austriaco. I primi esecutivi italiani fecero il ‘punto’ della situazione: tracciò una mappa e divise le strade in 'statali’, ‘provinciali’ e ‘comunali’. Venne alla luce che la quasi totalità dei comuni meridionali era priva di collegamenti viari. Dopo un secolo dall’Unità non è che le cose fossero cambiate di molto: il sud era sempre ‘tagliato fuori’ dal resto del Paese e attendeva la costruzione dell'autostrada del sole, come vedremo più avanti. Ma torniamo a cavallo tra '800 e '900: le strade veicolano la ‘modernità’ e, con essa, anche una maggiore socializzazione. Invece, molte zone e territory italiani ne risultarono privi. L’Italia nasceva con un bisogna atavico di essere collegata da una rete stradale, ma i fondi erano insufficienti per coprire l’enorme spesa prevista per un corente piano nazionale. Nonostante tutto, si partì col varo di alcuni progetti, che ci dotarono, inizialmente, di nuovi 4 mila chilometri. La manutenzione fu affidata ai ‘cantonieri’, che alloggiavano appunto nelle ‘case cantoniere’, ancora oggi in parte resistenti all’incuria, nonché apprezzabili per il loro stile architettonico. Ai primi del ‘900 eravamo dunque dotati di un sistema viario tutto sommato niente male, fatto di strade ben curate che attraversavano centri abitati e intersecavano le ferrovie. Oggi, costituirebbero un gradevole percorso per motociclisti della domenica, ma per il flusso di traffico e il tipo di veicoli lenti che circolavano allora, quei 4 mila chilometri erano sufficienti. Proprio il mutamento di questi fattori, ma non solo, indusse a pensare alla costruzione di nuove strade più lineari e veloci. Sparì il ‘macadam’, sostituito dal catrame, più facilmente riparabile. Nel frattempo, si iniziò anche un riordino del sistema per favorire la manutenzione, numerando le ‘statali’ (la via Aurelia divenne la statale numero 1). E così, seppur lentamente, ci avvicinammo alla vera innovazione, che avrebbe costituito il fulcro del progetto di modernizzazione del nostro sistema di comunicazione: le autostrade. Il primo tratto fu la Milano–Laghi e andava dal capoluogo meneghino fino ai laghi di Como, Maggiore e di Varese. Fu inaugurato nel 1924, per una lunghezza di 84 km. Se il nord iniziava a dotarsi di una rete veloce, il sud galleggiava tra i problemi di sempre. Per la Napoli-Pompei, i soldi spesi furono il doppio del previsto: il solito sperpero, che nel tempo sarebbe diventato un malcostume nazionale. Dopo gli anni bui della seconda guerra mondiale arrivò il ‘boom’ economico. Il Paese stava cambiando volto, rapidamente. E, nella sua trasformazione da Paese agricolo a industriale, le fabbriche di automobili cominciarono a conquistare un ruolo sempre più di maggior peso nelle scelte dell’agenda politica. Facile immaginare che in cima alla lista di quell’agenda ci fosse proprio lo sviluppo della rete autostradale. Uno sviluppo che avrebbe significato: minori costi per il trasporto; minori tempi; più lavoro derivato dall’indotto (bar, benzine, nuovi cantieri…). C’era solo di che guadagnare. Si diffuse l’idea che lo sviluppo economico passasse attraverso le strade veloci e che, quindi, l’industria automobilistica - privata - andasse aiutata dallo Stato. Interessi pubblici e privati iniziarono a mescolarsi, senza mostrare ancora i danni che avrebbero generato a distanza di tempo. Più di qualcuno sostenne allora (e sostiene oggi) che quelle scelte di politica dei trasporti favorirono la grande industria automobilistica privata, rappresentata fondamentalmente dalla Fiat, sottraendo risorse che sarebbero potute essere destinate ad altri settori. Quali che siano le opinioni al riguardo, non v’è dubbio che lo sviluppo della rete autostradale fosse una necessità. Fu grazie a esso se le industrie poterono fiorire, distribuendo merci ovunque. Grazie a ciò, il Paese si è potuto sentire meno isolato tra le sue parti. Piccoli e grandi centri hanno sperato che un’autostrada aprisse uno svincolo nei suoi paraggi: altro che manifestazioni in stile ‘No Tav’. Per onor di cronaca, chi voleva un’autostrada a pochi chilometri da casa sperava che aprisse “sul terreno del vicino, senza che avesse a invadere il proprio”, ricorda il padre dell’autostrada del sole, Francesco Aimone Jelmoni. L’Italia che correva veloce sulle sue strade, ora lo faceva sia per lavoro, ma anche per turismo. Iniziarono i grandi esodi vacanzieri e una nuova forma di pendolarismo: non più dalla provincia verso il grande centro, ma anche in senso contrario. Insomma, il quadro era perfetto: il Paese progettava le autostrade e la grande industria automobilistica forniva automobili veloci e sicure per percorrerle. E tutti vissero felici e contenti. Se fossimo nelle favole. In realtà, le cose stanno un po’ diversamente. La famosa e poc’anzi citata ‘Autosole’, la A1, fu voluta dagli interessi uniti di Fiat ed Eni. Come a dire: auto e carburante. La grande opera avrebbe costituito il nuovo passo in avanti verso un altro progresso della rete viaria italiana. Il meridione appariva distante, anche geograficamente, dalle zone di scambio principali, ovvero dall’Europa e dalla sua Comunità del carbone e dell’acciaio. I costi e i tempi di trasporto lo penalizzavano parecchio. In questa chiave, la realizzazione dell’autostrada del sole e, successivamente, della Salerno–Reggio Calabria, acquisirono un’estrema importanza per un Paese che voleva concludere una fase importante della sua modernizzazione, ancora incompleta. Tuttavia, realizzare un tratto di autostrada al sud era più complesso che al Nord, dove l’iniziativa privata poteva coprire facilmente una parte delle spese. In ogni caso, i lavori per la A1 iniziarono negli anni ’50. Si trattò di un’opera pubblica di grande ingegneria civile: dopo 4 anni, da Milano si giunse a Firenze. Era stato completato il tratto più complesso, che passava per gli Appennini. Gli ingegneri dell’Iri si trovarono di fronte a un problema che avrebbero dovuto risolvere attraverso un’infrastruttura, del tutto innovativa in Europa. Quella sfida fu vinta con pieno riconoscimento da parte dei Paesi stranieri. Curioso notare che la doppia corsia, prevista già dallo studio iniziale di Jelmoni, era stata descritta come ‘faraonica’. Nel 1964, dopo otto anni, la A1 venne inaugurata da Aldo Moro nel rispetto dei tempi previsti. A completamento dell’opera, negli anni seguenti si proseguì con la Salerno-Reggio Calabria, la A3: l'ultimo segmento per unire il lontano nord all'estremo sud. I lavori furono affidati all'Anas. Il tratto da coprire non era certo dei più facili. E, tanto per complicare la faccenda, venne deviato anche il percorso, che non seguì più il litorale, ma si addentrò nella Sila calabrese. Passare per il centro della Calabria significò effettuare viadotti e gallerie, con un’inevitabile lievitazione dei costi e allungo dei tempi di realizzazione. Oltretutto, nemmeno i mezzi di lavoro riuscivano a raggiungere agevolmente i cantieri, per l'atavica mancanza di strade. Perché tutto questo? All'epoca, la Calabria aveva un politico di peso come Giacomo Mancini, ministro dei Lavori Pubblici guarda caso nativo di Cosenza, dove sarebbe dovuta passare proprio l’autostrada. Il tratto venne ultimato dopo ben dodici anni di lavori. Lo Stato aveva donato il suo miglior sforzo di sempre al meridione. Ma si trattava di un’autostrada di ‘serie B’: una statale veloce, priva di corsia di emergenza. Così, nel 1999, dopo le pressioni dell'Unione europea, iniziarono i primi lavori di ammodernamento. La fine di questi era prevista, inizialmente, per il 2003, quindi per il 2005. Di proroga in proroga, l'ultima data fornita è il 2018, ma ormai non ci crede più nessuno. La Sa-Rc ha lunghi tratti non in pianura, continue deviazioni, soprattutto lungo il famoso tratto cosentino della Sila. E non si paga ‘pedaggio’. Qualcuno dice 'meno male'; qualcun altro, l'esatto contrario, forse a ragione. A chi importa, in fondo? A percorrerla sono o i vacanzieri d'agosto o i meridionali che rientrano a casa. Si aggiunga che l'A3, l'incompiuta, oltre a essere un cantiere a cielo aperto ha numerose inchieste della magistratura che ne bloccano i lavori. Le mani delle 'ndrine nei ‘subappalti’ sono ormai cronaca nota. E così, l'ultima grande opera che avrebbe dovuto unire un Paese da sempre disunito e disorganizzato continua a mantenerlo separato: di lá un nord efficiente, di qua un sud ‘deficiente’.