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Daniele Manacorda, archeologo propone di restituire al Colosseo la sua arena calpestabile; un’idea appoggiata da Dario Franceschini, ma che da molti è anche vista come un rischio per il monumento stesso e per l’uso che ne potrebbe derivare
Il Colosseo è da sempre il punto di riferimento e di partenza per i milioni di turisti che durante l’anno si affollano in via dei Fori imperiali per visitarlo o per immortalarlo in uno scatto fotografico. Una volta entrati nell’arena la prima domanda che sorge spontanea è quale dovesse essere l’aspetto originario che i gladiatori e i martiri cristiani si trovavano di fronte. Un’impresa difficile, considerando anche il fatto che l’arena stessa non esiste più, sostituita nella veduta d’insieme dai sotterranei che le erano sottostanti. Lunghissimi corridoi e mura che sono ormai perfettamente identificabili con l’immagine generale del monumento. Daniele Manacorda, invece, non pensa che le cose debbano restare così. Secondo l’archeologo romano, infatti, sarebbe possibile restituire al Colosseo la sua arena, coprendo i sotterranei e consentendo ai visitatori una visione più ‘reale’ dell’Anfiteatro Flavio. Su twitter l’idea è stata immediatamente appoggiata dal Ministro Franceschini che si è fatto promotore di trasformarla in un progetto concreto. Non sono mancate però le riserve, di natura sia logistica che tecnica. Ma, come ci racconta in questa intervista il professor Manacorda, restituire al Colosseo la sua forma originaria, lo renderebbe più facilmente comprensibile ai milioni di turisti che ogni anno visitano la capitale.
Professor Manacorda, precisamente quando è stata rimossa l’arena del Colosseo? “Si è cominciato a fare i primi scavi archeologici nella seconda metà dell’800. È stata una vicenda molto complessa, lunga e con problemi di diversa natura che si è conclusa nel corso del ‘900. L’intento di questi scavi era di riportare alla luce i sotterranei dell’Anfiteatro. Noi archeologi conduciamo delle indagini nel terreno, condotte con un metodo scientifico, che servono a conoscere meglio quel determinato monumento o sito, ma l’esito degli scavi archeologici non coincide necessariamente con l’esposizione delle strutture, in alcuni casi addirittura frammentarie. Strutture che non erano state concepite per essere esposte in quanto sotterranee. Sarebbe quindi possibile, con una sola operazione, ottenere due risultati: da una parte restituire all’anfiteatro la sua forma originaria, dall’altra allestire percorsi di visita ai sotterranei per far comprendere il complesso meccanismo che consentiva di far funzionare la macchina ludica del Colosseo”.
Lei ha fatto riferimento a una gran quantità di dati che sono andati persi. “Gli scavi dell’800 non venivano praticati con la metodologia stratigrafica in uso oggi; in questo modo si persero un’enorme quantità di relazioni tra strati e strutture e di reperti presenti in quegli strati. La perdita è stata sicuramente grave, anche se i recenti scavi hanno portato alla luce ulteriori elementi che ci hanno permesso di ricostruire aspetti assai importanti della storia bimillenaria del monumento. D’altra parte non penso debba essere motivo di discussione se l’archeologia di cento anni fa si muoveva con metodi molto più rozzi di quelli moderni. Ma proprio perché il Colosseo adesso lo conosciamo meglio, noi archeologi dobbiamo rispondere a una semplice domanda: le strutture che sono state portate alla luce devono rimanere esposte alle intemperie o devono essere ricoperte?”.
Lei ha evidenziato una vena “necrofila” della scienza archeologica. “Sì, tuttavia, questo mio pensiero non va esteso a tutta l’archeologia e a tutti gli archeologi. Il parallelo con l’anatomia è utile perché aiuta a distinguere tra scienza medica e necrofilia. L’anatomia è una scienza nata nel Rinascimento che, nonostante il divieto dell’uso di tali pratiche nella cultura religiosa e superstiziosa dell’epoca, è riuscita a svilupparsi aumentando enormemente le nostre conoscenze sul corpo umano. Il lavoro dell’archeologo è in un certo senso una sorta di ‘dissezione del sepolto’, procedura scientifica rigorosa e stratigrafica, che contribuisce a portare un enorme aumento nelle conoscenze che noi traiamo da questa pratica. L’archeologo però, quando scava nel terreno, cerca relazioni e non va come un moderno Indiana Jones alla scoperta di un tesoro in fondo a un buco che poi lascerà scoperto. Esiste una vena necrofila dell’archeologia secondo la quale, quando vengono esposte delle strutture antiche, sepolte, rotte e frammentate, esse debbano essere lasciate all’aperto in quanto portatrici di un qualche valore in sé. Io penso che questo non vada mai fatto, a meno che non ci sia un progetto di tutela e valorizzazione di quanto è stato esposto. Non agire in questo senso, a mio modo di vedere, concorre drammaticamente al distacco dell’opinione pubblica dal lavoro dell’archeologo, creando un processo vizioso per il quale, quando i cittadini si sentiranno lontani dal proprio patrimonio culturale perché non ne capiscono il senso non vorranno neanche investire su di esso. Ed è esattamente quello che avviene oggi”.
Quindi ritiene che questa vena ‘necrofila’ archeologica sia ancora presente? “Assolutamente sì. Non voglio dare la croce agli archeologi; mi sento anzi di difendere la mia categoria quando essa opera scientificamente per allargare le conoscenze, ponendosi laicamente il problema del senso del proprio lavoro. Quando noi, in quanto archeologi, pensiamo che l’oggetto del nostro interesse deve essere tale anche per l’opinione pubblica e per la società nel suo insieme (anche accogliendo e subendo delle scelte espositive che non hanno nulla a che fare con il lavoro dell’archeologo), in questo caso entro in garbata polemica con me stesso e con la categoria. Lo ripeto: i muri che reggevano la superficie di calpestio dell’arena del Colosseo non hanno alcun motivo di essere lasciati esposti alle intemperie. Mi domando anzi se non ci sia un problema di tutela: sono decenni che quei muri sono esposti agli agenti climatici. Il Colosseo è oggetto di grandissime cure da parte della nostra Soprintendenza. Mi domando per quale motivo una simile attenzione non venga rivolta anche ai muri dei sotterranei”. Tra le voci più critiche alla sua idea, c’è quella di Rossella Rea (direttrice del Colosseo), che ipotizza il rischio di allagamento in caso di pioggia a causa del Fosso di San Clemente. Lei come risponde? “A parte che questo problema idraulico si conosce da tempo e che deve essere risolto in termini ingegneristici, ha mai sentito dire che il Colosseo è stato chiuso al pubblico a causa delle piogge? Non mi arrogo il diritto di parlare di aspetti tecnici che non conosco, ma questo argomento mi sembra una di quelle risposte che servono a dire immediatamente “No, stop, non facciamo”, perché una delle pratiche italiche più diffuse è fare in modo che le cose non si facciano”.
Un’ulteriore critica è arrivata da Cesare de Seta che ha paventato l’ipotesi di un utilizzo del luogo poco consono al Colosseo qualora l’arena venisse ricoperta. “È stata la polemica maggiore e si tratta di qualcosa di francamente paradossale. Io non ho letto critiche all’idea in sé, ma critiche ai rischi che quell’idea può produrre, perché siamo sempre pronti a bendarci la testa prima ancora di essercela rotta. In questo caso il paradosso è ancora più evidente, perché si paventa l’ipotesi che nel Colosseo possano tenersi chissà quali eventi e manifestazioni non degni di quel luogo. Si dimentica che il Colosseo è proprietà del Ministero dei Beni Culturali, che è diretto da una Soprintendenza archeologica. È evidente che all’interno del Colosseo possono avvenire delle iniziative culturali compatibili con il monumento e non un concerto rock con migliaia di persone. C’è qualcuno che ha una graduatoria delle manifestazioni culturali contemporanee che siano di serie A o di serie B? Questo lo trovo francamente patetico, per non dire pericoloso. Mi chiedo perché ci siano sempre dei settori della cultura italiana che vivono con il terrore quella che chiamano ‘cultura dell’intrattenimento’
Che cosa intende? “Ad esempio Dario Franceschini è stato ospite della trasmissione di Fabio Fazio a ‘Che tempo che fa’, dove si è parlato anche del Colosseo: io sono rimasto interdetto dall’atteggiamento del presentatore, che si è fatto megafono delle posizioni di cui stiamo parlando, cercando di mettere in difficoltà il ministro. Un atteggiamento paradossale in una trasmissione dedicata a un ottimo intrattenimento. Perché si deve considerare questa ‘cultura dell’intrattenimento’ indegna dei siti della memoria e della storia italiana? Forse che le letture pubbliche della Divina Commedia che Roberto Benigni ha tenuto davanti a migliaia di persone a Piazza Santa Croce a Firenze hanno infangato la bellezza e il valore storico-artistico di quel luogo? I nostri luoghi della memoria, secondo questa visione, dovrebbero essere imbalsamati e riservati unicamente alla contemplazione”.
Quindi potremo dire che il lavoro dell’archeologo non è solo quello di riportare alla luce i siti della memoria, ma anche di renderli fruibili? “Il lavoro dell’archeologo è quello di conoscere. Per questo quando, per qualsiasi motivo, viene fatto uno scavo, sarebbe bene ricoprirlo a meno che non vi sia un progetto preciso. L’articolo 9 della Costituzione afferma che uno degli scopi della Repubblica è la promozione della cultura, che oggi suona anche come ‘valorizzazione del patrimonio’. Ma questo è possibile solo se esiste un progetto che renda un sito frequentabile e mantenibile, in modo che non sia lasciato in seguito alle erbacce. Se le condizioni di conservazione di un sito sono particolarmente precarie, probabilmente dovremmo riservarlo solo alla contemplazione, magari a numero chiuso e con i tempi contingentati. Non esistono regole, esiste solo il buon senso. Molti, ad esempio, sono contrari agli spettacoli di opera lirica che si tengono ogni estate alle terme di Caracalla. Ma, se non si pregiudica la conservazione del luogo, possiamo legittimamente considerare queste iniziative molto belle, che fanno aumentare il numero di potenziali visitatori”. Esistono altri casi di scavi aperti senza un progetto nel resto del Paese? “Ne siamo pieni. Ce ne sono tantissimi, specialmente nei centri storici. Oggi si sta più attenti, ma in generale c’è il bisogno di far riemergere i frammenti del passato inserendoli nel paesaggio urbano. Un bisogno dettato probabilmente da un desiderio di cultura nel quale mi riconosco. Questi resti però devono essere reintegrati nel paesaggio urbano, non imposti a forza su di esso senza raccontare nulla”.
Come si fa a identificare qualcosa che non è utile, che non racconta nulla? “L’Italia è un paese dove non c’è un metro quadro, e penso di poterlo dire senza esagerare, dove non vi siano storie stratificate da raccontare. L’archeologia contemporanea è in grado di comprendere quelle storie e trasformarle in conoscenza, possibilmente diffusa. Non parliamo di cocci o labili tracce di focolari, ma di resti strutturali stabili, sui quali si può discutere se possano tornare e restare alla luce per contribuire a raccontare una storia, valorizzandoli in modo che arricchiscano quel luogo e e chi lo frequenta. Dobbiamo anche chiederci se il gioco vale la candela, se i costi economici e sociali dell’operazione non siano eccessivi. Sa quanti muretti, quante di queste testimonianze vengono distrutte quotidianamente se risultano di ostacolo alla realizzazione di un’importante opera pubblica? L’importante è che non si distrugga nulla che non si sia prima conosciuto e documentato. E invece ci troviamo di fronte a un paradosso: con una mano si distrugge un antico muretto di mattoni e con l’altra se ne tutela un altro sacralizzandolo e vietando di sfiorarlo con la mano”.
Questo vuol dire che, rispetto alla ‘questione’ Colosseo ci sono altre priorità? “Salvatore Settis, personalità del mondo della cultura che noi tutti stimiamo, richiama di continuo l’attenzione sul problema della scarsa cura riservata al nostro patrimonio culturale. Rifare l’arena dell’anfiteatro Flavio potrebbe non essere prioritario rispetto ad altre situazioni disastrose. Il Colosseo è però un simbolo, un’icona in tutto il mondo, e meta di un turismo globalizzato. E le operazioni sui simboli hanno sempre un valore aggiunto”.