Il nome, quel ‘Ciao’ che persino gli stranieri riconoscono, lo scelsero gli italiani attraverso la schedina del Totocalcio. Il confronto era tra Ciao, Amico, Beniamino, Bimbo e Dribbly. Alla fine prevalse quello del saluto ormai divenuto universale, quasi una sorta di benvenuto agli ospiti nel Bel Paese che organizzava i Mondiali del 1990. Quella mascotte così diversa dalle altre, suscitò tiepidi entusiasmi all’inizio. Con quel corpo che non era quello di un pupazzo e quel viso per nulla espressivo (un pallone di calcio), sembrava accordarsi male, a dispetto proprio del nome, allo spirito di accoglienza tipico degli italiani. Eppure il suo ideatore, il grafico Lucio Boscardin, ebbe la meglio su tutti al concorso indetto per la creazione del marchio-mascotte dei mondiali di calcio 1990. Altre idee, forse anche più simpatiche della sua, furono scartate – ci ha raccontato Boscardin –. Il suo ‘Ciao’ prevalse, e alla fine piacque anche al pubblico. Il perché non lo sappiamo. Simboleggiava l’Italia privata dai suoi tipici contenuti (pizza, spaghetti e mandolino) o la simpatia che la stessa nazionale di calcio acquisì, partita dopo partita, si trasferì per scaramanzia di vittorie anche alla mascotte? Quello che più sorprende è che a distanza di anni, secondo una speciale classifica dell’ inglese ‘Sun’, il ‘Ciao’ è ancora tra le mascotte più amate di sempre. “Quando vinsi, mi dissero di non far parola con nessuno, perché c’era una grossa presentazione in ballo”. Eppure il giorno della prima, Gigi Riva e non solo lui, storse il naso. “Colpa di quella piatta proiezione sul telo al Quirinale. Poi, invece…”. Ripercorriamo, attraverso la voce del suo inventore, qualche momento saliente della presentazione ufficiale.
Lucio Boscardin, iniziamo da quel famoso giorno, quando ‘Ciao’ venne presentata al Mondo, nei saloni del Quirinale. Cosa ci dice in proposito?
"Prima ancora, ricordo che nel maggio del 1986 mi diedero la notizia della vittoria, ma solo a me. Mi dissero di non far parola assolutamente con nessuno, fintantoché l’Organizzazione non avesse dato in mano la notizia alla stampa. C’era di mezzo una roba molto grossa per la presentazione, per cui avrei dovuto cucirmi la bocca fino a quel giorno”.
Bocche cucite fino a nuova chiamata, quindi?
"Sono stato in silenzio fino a metà novembre. Quando mi convocarono al Quirinale. Là c’era anche la giuria che aveva valutato il progetto, composta dall’imprenditore e designer Sergio Pininfarina, il critico d’arte Federico Zeri, il pubblicitario Armando Testa, l’architetto Marco Zanuso e il ministro dello Sport e dello Spettacolo Franco Carraro. Oltre, ovviamente, tutta la crema italiana: politici, imprenditori, uomini di chiesa, giornalisti”.
Davanti a quella importante platea, lei, sconosciuto, si mise sotto le luci della ribalta. E venne il momento fatidico: la scoperta della mascotte. Cosa ricorda?
"Arrivò il momento di scoprire la gigantografia di tre metri del ‘Ciao’. Non era in tre dimensioni. Si trattava soltanto di una proiezione sul telo”.
La sua reazione a caldo quale fu?
"Allora, a parte gli applausi, la mia personale reazione fu negativa. A me non piacque molto. Vista così su un telo, enorme, rendeva male. Una foto è comunque piatta. Però poi, vista ‘dal vivo’ la cosa cambiò totalmente”.
Ricorda altre critiche?
"Dopo la cerimonia tornammo all’Excelsior. Seduto al mio fianco c’era Gigi Riva che mi confessò un parere abbastanza negativo”.
Cosa le disse Riva, esattamente?
"Beh, disse che non le era piaciuta, ora non ricordo le parole esatte, ma in ogni caso si espresse in maniera tale da non offendermi”.
E il presidente della Repubblica, Cossiga?
"Mi strinse la mano e mi fece sedere al fianco di Montezemolo che era a capo del comitato organizzatore del Mondiale. Vicino c’era anche João Havelange (potente presidente della Fifa dell’epoca, ndr) e altri pezzi da novanta. Era un ‘palchetto’ di gente di ‘peso’, insomma, di fronte a una altrettanto importante platea”.
Possibile che con tanti ‘illustrissimi’ nessuno si sia avvicinato a lei per porle qualche domanda?
"Beh, si avvicinò Candido Cannavò, il Direttore della Gazzetta dello Sport, che mi prese sottobraccio e mi chiese: ‘Ah, bene, interessante. Si, si, ma come mai le è venuto in mente questo pinocchietto?”.
Pinocchietto?
"Disse proprio così! E allora iniziai a raccontargli la storia della sua genesi. In quel momento si avvicinarono altri giornalisti e fotografi e fummo presi d’assalto. Almeno trenta o quaranta”.
Sulla genesi ci siamo informati, per una volta la anticipiamo: si ispirò a un semaforo. Complice il traffico?
" in Corso Buenos Aires a Milano. Pioveva, come oggi e non si camminava. Ogni due metri il semaforo diventava rosso. Facendo il grafico, prendevo sempre nota dei miei lavori, quando mi veniva in testa qualcosa. Guardando quel semaforo di continuo, che da giallo diventa rosso, poi di nuovo verde, e così via… e non si andava avanti mai, così mi venne il lampo di genio. ‘Vuoi vedere che qui salta fuori qualcosa di interessante?’, pensai. Buttai giù uno schizzo (sul sedile di fianco ho sempre carta e penna) e poi a casa incominciai a preparare meglio i bastoncini tricolori che composero la parola ITALIA”.
Un particolare, quello della parola ‘Italia’ che non tutti ricordano o conoscono. E che probabilmente fu uno dei motivi della sua vittoria, non trova?
"Sì, se lei li accosta, quelli di ‘Ciao’, formano quella parola. La “L” chiaramente si compone di due bastoncini in cui in uno ho lasciato fuori un colore, perché uno si sovrappone nella combinazione”.
E dopo i bastoncini, come pensò alla testa?
"Faccia conto di avere dieci fiammiferi. Se li sparpaglia un po’, praticamente uno sormonta l’altro, qualcuno lo avvicina anche un po’ e se ci mette una moneta da 100 lire, viene fuori un atleta. E lì è nato il pallone. Dopo quei dieci bastoncini tricolore, mancava solo la testa e non poteva che essere un pallone. Così mandai il progetto al concorso”.
Si aspettava di vincere?
"No. In questi casi parliamo di concorsi talmente grandi che uno partecipa con tutta la buona volontà del caso, ma vincere rimane un terno all’otto. Certo, un minimo di convinzione di poter risultare c’è sempre”.
Eppure ci è riuscito. Perché, secondo lei? Ha incontrato difficoltà?
"La mascotte, come da regolamento, doveva rispettare delle precise caratteristiche. Non poteva essere provinciale (ricordando, per esempio, il Colosseo o la Mole Antonelliana). Né potevo ispirarmi ai personaggi noti (come Garibaldi o Mazzini). Una cosa molto italiana, insomma, che doveva appartenere a tutti. Molti hanno presentarono la pizza, gli spaghetti. Ricordo, per esempio, che uno fece un personaggio con gli spaghetti tricolore al posto dei capelli. Se vuole, l’idea era anche carina, ma restava ‘di parte’. Io invece il concorso l’ho azzeccato. Presentandomi con la parola ‘Italia’ da cui nasce un personaggio tutto italiano. E il pallone che ho aggiunto indica un personaggio, un calciatore, dunque, tutto italiano. Ho vinto per questo, credo. L’originalità è stata questa”.
Alla fine, ha vinto davvero. Non solo al concorso. Ha visto che secondo una classifica del ‘Sun’ il suo ‘Ciao’ è tra le mascotte più amate di sempre?
"Si, mi è giunta voce di quella classifica. Le dirò un’altra cosa: recentemente ho visto tutte le mascotte insieme, stampate in un foglio. Ebbene, ‘Ciao’ emerge in una maniera madornale. Le altre sono tutte pupazzetti, animaletti. La mia invece è completamente fuori dagli schemi. Ha segnato una particolarità”.
Ringraziamo Lucio Boscardin per la disponibilità. A sentire dalla sua voce come andarono le cose all’epoca, tra i soliti pizza e spaghetti, forse, meglio, di gran lunga quel personaggio dal nome probabilmente poco persuasivo, ma ‘italiano’, quello sì, senza scadere nei soliti luoghi comuni.
Lucio Boscardin
Veneto, nato a Enego (Vicenza), piccolo comune di 1800 abitanti, nel 1943, si trasferisce a Milano appena maggiorenne. Di professione fa il grafico, ma è un artista completo: pittore e scultore. Come grafico pubblicitario lega il suo nome all’ideazione della mascotte di Italia ’90, “Ciao”. Come artista si colloca nella scia del futurismo, sempre alla ricerca di soluzioni innovative che consentano una fruizione dell’opera d’arte in maniera da comprenderla a fondo. Svolge ancora oggi la sua professione, a Camparda, in Brianza, ricercando sempre indicazioni e stimoli nuovi.