Il ritorno di uno dei personaggi più amati dell’universo Disney sul grande schermo è la chiara dimostrazione che non tutte le pellicole meritano un seguito. Pretenzioso e inconcludente, 'Alice attraverso lo specchio' riesce nel difficile compito di annoiare e irritare allo stesso tempo lo spettatore: un risultato davvero notevole
Aleggiava una forte vento di scetticismo nei confronti di 'Alice attraverso lo specchio', la nuova avventura targata Disney dell’iconico personaggio partorito dalla fervida fantasia di Lewis Carroll, seguito del fortunato e altrettanto discusso 'Alice in Wonderland', del regista visionario Tim Burton. I motivi che hanno alimentato questa generale diffidenza sono vari: per cominciare a dirigere il film non sarebbe stato lo stesso Burton, ma il semi-sconosciuto James Bobin, già regista delle ultime due incarnazioni cinematografiche de 'I Muppet'; la consapevolezza che la trama sarebbe stata essenzialmente un adattamento originale, piuttosto che un rifacimento all’originale romanzo di Carroll, 'Attraverso lo specchio' e quel che Alice vi trovò, dal momento che buona parte dei contenuti di questa seconda avventura erano già presenti nel primo film di Burton; il fatto che tra una pellicola e l’altra sono trascorsi più di 6 anni, solitamente indice di una produzione travagliata e complessa; nonostante gli incassi stellari, il primo episodio della serie non era molto più che un esercizio di stile e computer grafica di altissimo livello e alla fine anche gradevole, ma dove a mancare era la sostanza e il mordente delle opere originali, a volte sacrificato per consentire una fruizione a un pubblico più ampio. Timori fondati quindi? Purtroppo si.
Alice Kingsleigh (Mia Wasikowska), dopo il suo ultimo viaggio a Sottomondo, ha trascorso più di un anno seguendo le orme di suo padre navigando per mare in cerca di nuove rotte commerciali con l’oriente. Al suo ritorno a Londra, viene privata del comando della nave e accusata di essere una persona disdicevole e strana per la società inglese. Fuggita da una festa di società, viene raggiunta dal Brucaliffo, che la invita a tornare nel Paese delle Meraviglie. Il Cappellaio Matto (Johnny Depp) infatti sta male a causa di eventi passati, e solo tornare indietro nel tempo e cambiare il corso della storia potrebbe aiutarlo. Peccato però che il Tempo (Sasha Baron Cohen) non permetta di viaggiare a ritroso nel passato. Se a questo si aggiunge che la Regina di Cuori (Helena Bonham Carter) è ancora in cerca della sua vendetta contro la sorella (Anne Hathaway) e la stessa Alice, la situazione non può che precipitare.
Di solito, quando a Hollywood le idee scarseggiano, il viaggio nel tempo è la soluzione ideale degli sceneggiatori per salvarsi dall’impasse. Non che sia nulla di male nel cercare ispirazione nell’infinito variare del tempo, ma nel caso di Alice, francamente, è impossibile capirne l’utilità. La protagonista, pur restando un personaggio indiscutibilmente insopportabile, aveva comunque subito un’evoluzione nel corso della precedente pellicola, passando da ragazzina succube degli eventi che la circondano a eroina capace di forgiare il proprio destino con fantasia e intraprendenza. Questa nuova avventura ci presenta, invece, un personaggio che all’inizio sembra aver assimilato la propria nuova natura, salvo poi tornare irrimediabilmente indietro e ricominciare daccapo. Tutto nel film ha il sapore del già visto, del non ispirato. Insomma, della noia. Il Cappellaio Matto, personaggio ormai iconico, interpretato dal travagliato Johnny Depp, assomiglia a tutti i personaggi interpretati dall’attore americano negli ultimi anni: macchiette tra caricaturali e fini a se stessi. Senza mordente, senza simpatia, in altri termini inutile e fin troppo melenso in alcuni tratti. Molto interessante, invece, il lavoro svolto da Sasha Baron Cohen con il Tempo, personaggio sfaccettato ed affascinante: a volte implacabile guardiano dello scorrere delle cose, altre simpatico e affascinante custode della propria natura di grande 'orologiaio', capace di fare più di qualche riflessione interessante e non scadere mai nel banale ruolo di antagonista 'cattivo solo perché cattivo'. Unica nota positiva in un generale 'pattume' recitativo, privo di ispirazione e carattere.
Nulla da dire sul piano tecnico, ma a certi livelli parlare bene dell’aspetto tecnico di un film sarebbe come ammettere che il cielo è azzurro. Non si può dire che le idee originali non manchino, come ad esempio la parte del presente ambientata in un manicomio femminile, dove la nostra protagonista viene ricoverata in quanto affetta da 'isterìa femminile', una delle poche scelte narrative interessanti capace di denunciare la condizione femminile nella Londra 'vittoriana', oppure la rappresentazione visiva del tempo come un oceano in tempesta che deve essere a tutti gli effetti navigato. Poche cose, però, che non riesco a riabilitare un lavoro scialbo e scadente, del tutto privo di originalità.
Ora, è comprensibile che la Disney abbia deciso di 'spremere' una delle sue galline della uova d’oro fino all’osso (inutile negare che il 'brand' di 'Alice in Winderland' sia uno dei più remunerativi in termini di merchandising in 'casa Topolino'...), ma forse sarebbe stato meglio investire in altri settori per 'mutuare' il brand, sviluppando, per esempio, una serie televisiva per la tv o per Netflix come già sta facendo la Marvel per alcuni suoi prodotti (Marvel che, tra le altre cose, fa parte proprio della Disney), piuttosto che far sprecare allo spettatore due ore della propria vita assistendo al nulla assoluto.