Un film giunto a ricordarci un periodo storico in cui improvvisamente qualcuno spariva e sapevi che l’Hiv se l’era portato via solo a funerali avvenuti: le imprecisioni viaggiano a gruppi numerosi, poiché certi 'ciceroni da social' sono acquisizione recente di un mondo che pensa di sapere tutto e non ha mai compreso nulla
Chiunque abbia letto Haruki Murakami, ma anche la più semplice – solo in apparenza – Banana Yoshimoto, senza per forza aver deciso di passare per la lettura di 'Strangers' di Taichi Yamada (Casa Editrice Nord), che abbiamo letto nella sua traduzione inglese non potendo culturalmente accedere all’originale giapponese, è consapevole di come si tratti di un romanzo, da cui è tratto questo film, che non è possibile affrontare senza passare dalla percezione orientale delle entità, che in occidente definiamo "fantasmi", tra il terrorizzato e l’incredulo. E non c'è bisogno di scomodare i concetti buddisti di non sostanzialità (uno stato in cui la materia non è più presente, essendo morto il corpo, in cui l’energia vitale del de cuius [sic] rimane intatta, latente, in una dimensione parallela, in attesa delle condizioni adatte al suo ritorno dentro un corpo fisico). Dunque, noi diciamo che 'Estranei' è un film dove i fantasmi siamo noi, che abbiamo così tanto bisogno di andare a cercare le nostre risposte dovunque esse siano, tanto da evocare i ricordi in modo così potente da dover essere poi costretti a cavalcarli, pensando di governarli. Salvo poi descriverli come "fantasmi", quando cominciamo a perderne quello che chiamavamo: “Il controllo”. Perciò, fa sorridere, se non sganasciare - dipende da come ci si trova - sentir parlare di 'Estranei' come di un 'ghost movie' che non è un 'ghost movie'. E mica solo perché tocca sapere di cosa si parla, bensì perché si dovrebbe considerare 'Estranei' come la cronaca postuma di una generazione che non c’è più; di un lungo momento sociale nel quale essere un uomo che amava un uomo, più che un maschio che faceva sesso con altri maschi, significava essere un fantasma e dover fare i conti col fantasma di se stesso; significava doversi immaginare in procinto di contrarre una malattia incurabile a ogni rapporto sessuale; significava assumersi il rischio di essere socialmente 'bannati' qualora si fosse dichiarato di amare un uomo (o una donna) all'interno di una coppia monosessuale, al di fuori di pochi amici fidati. 'Estranei' restituisce tutto questo disagio nella maniera più minuziosa possibile, come se fosse raccontato, per l’appunto, da fantasmi o da estranei ai quali prestiamo l’attenzione appena necessaria: tanto, prima o poi scenderemo dalla metro, dal treno, all’autobus e non li vedremo mai più. E proprio per questo solo apparente distacco, ne esce un racconto tanto più terribile, quanto tragicamente vero.
'Estranei' è un 'cazzotto' nei denti. Un film di una tale potenza che assai difficilmente si riesce a trattenere le lacrime: ci è voluto quasi un mese prima che qualcuno di noi riuscisse a scriverne. E avremmo anche potuto farne a meno senza che nessuno si strappasse le vesti, perché se c’è qualcosa che non ci manca è l’avere contezza. I riferimenti alla questione dei fantasmi legati all’opera di Taichi Yamada, per forza di cose avvinghiata alla cultura giapponese, sono solo intelligentemente sfiorati, perché non ne sarebbe stata possibile una trasposizione accettabile nel cinema occidentale. E infatti, nessuno ha ancora pensato a un film tratto dal libro ‘L’assassinio del Commendatore’ di Murakami, che di fantasmi è pieno zeppo. Di certo, la profondità di 'Estranei' sfugge a chi non ha vissuto, fortunatamente, quel periodo storico, che nella bella trasposizione cinematografica di Andrew Haigh viene alleggerito tramite una scelta musicale 'ruffianissima', con tanti brani dell’epoca che sono diventati 'icone'. Altrettanto certamente, ciò che si è letto dei sempre troppo numerosi e profondi 'conoscitori del cinema', così capaci nel loro argomentare la materia che maneggiano e così calati nella cultura che appartiene solo a loro da essere costretti a fare, per vivere, un altro mestiere, che col cinema non c’entra niente (secondo la regola non scritta che più sono 'scienziati al bar', meno scienza masticano nel quotidiano e meno hanno conoscenza sufficiente del momento storico di cui si parla). Non è vero nulla di ciò che si è letto, per chi ha trattato l’argomento con quella che hanno pensato essere la 'freddezza intellettuale' di colui che sa, perché ha visto e conosce. Spiace deluderli, ma costoro non hanno visto niente. E hanno capito ancor meno. Prima, durante o dopo questo film, che resta imperdibile e che, se lo avete perso, vi consigliamo caldamente di recuperare. C’è un quindicennio di disperazione riassunto in due semplici frasi del protagonista e della 'madre-fantasma' di lui: “Nessuno ti tratta male per questo?”, dice lei alla confessione del figlio sulla propria omosessualità. E poi c’è quella, più virilmente trattata di Adam, sulla possibilità di un rapporto completo: “Ho sempre creduto che avrei potuto morire facendolo”. A dimostrazione, a suon di prep, che pochi ricordano esattamente un periodo storico in cui, improvvisamente, qualcuno spariva e sapevi che l’Hiv se l’era portato via solo a funerali avvenuti. Le imprecisioni viaggiano a gruppi numerosi. E la fortuna di avere 'ciceroni da social' è acquisizione molto recente di un mondo che pensa di sapere tutto e non ha mai capito niente.