Il 6 novembre è uscito nelle sale italiane l'ultima fatica del regista britannico Christopher Nolan. Una space-opera che non è solo intrattenimento, ma anche una riflessione più profonda sul tempo e sullo spazio che occupiamo come esseri umani
Non è facile fare film di fantascienza. L’evoluzione della tecnologia e della computer grafica ha consentito alle case di produzione hollywoodiane di creare interi nuovi universi popolati di strane creature e mondi sempre variopinti e all’occorrenza pericolosi. Il tema portante dal 1977 quando uscì nei cinema americani Star Wars (perché ci rifiutiamo di usare l’orrenda traduzione Guerre Stellari), il tema portante della fantascienza a Hollywood è stato stupire lo spettatore, creando un mix molto suggestivo di fantascienza e fantasy.
La fantascienza in senso stretto però è qualcosa di diverso e quest’anno Christopher Nolan, acclamato regista di Inception e della trilogia de Il Cavaliere Oscuro, ha deciso di ricordarci cosa sia un film di genere: il 6 novembre è uscito nelle sale italiane Interstellar, ultima fatica del regista britannico.Nel panorama cinematografico internazionale Christopher Nolan è senza dubbio una figura “atipica”: mentre molti registi cercano di stupire lo spettatore con quello che si vede sullo schermo, Nolan cerca di raggiungere lo stesso effetto mettendo la platea davanti a qualcosa che non si riesce a comprendere immediatamente, richiedendo uno sforzo maggiore sia nel seguire lo sviluppo degli eventi sia nella comprensione degli elementi alla base della trama.
Interstellar può essere riassunto come la storia di Cooper (interpretato da un sempre più attivo e convincente Matthew McConaughey), un pilota diventato agricoltore in una terra devastata da carestie e siccità e in cui ogni risorsa alimentare sta lentamente sparendo, che viene arruolato per una missione di esplorazione dell’universo alla ricerca di un nuovo pianeta per il genere umano. Questa breve sinossi non rende neanche lontanamente la complessità e la profondità di questo film. In 169 minuti di pellicola, scienza e fantascienza vengono messe sullo stesso piano, divenendo qualcosa che raramente si riesce a vedere in una sala cinematografica: una storia plausibile.
Il nucleo pulsante del film è rappresentato dalla teoria del Ponte di Einstein-Rosen (più semplicemente noto come wormhole o cunicolo spazio-temporale): si tratta di un ipotetico corridoio nello spazio-tempo che consentirebbe di viaggiare da una galassia all’altra in quello che viene chiamato comunemente iperspazio, ossia a una velocità superiore a quella della luce.
Gli spunti per costruire un intreccio avvincente con queste premesse non mancano e Nolan (autore anche della sceneggiatura insieme al fratello Jonathan) è riuscito a creare una space-opera che non fosse solo intrattenimento, ma anche una riflessione più profonda sul tempo e sullo spazio che occupiamo come esseri umani: quella di Cooper non è solo la ricerca di un nuovo pianeta abitabile, quanto piuttosto l’esplorazione di quelli che sono i limiti dell’universo stesso.
L’approccio di Nolan alla fantascienza è una sorta di boccata d’ossigeno per un genere ormai saturo per continue interpretazioni così simili l’una all’altra. La fantascienza è quel luogo in cui il fisicamente impossibile viene reso plausibile agli occhi dello spettatore. In altri termini la sospensione dell’incredulità dello spettatore deve essere ridotta al minimo, alla semplice accettazione che ciò che viene mostrato è possibile. Pochi registi e autori sono stati in grado di raggiungere un simile livello di verosimiglianza e di approfondimento scientifico. A voler tornare indietro forse solo Stanley Kubrick con 2001: Odissea nello Spazio era riuscito nel tentativo di conciliare questi due estremi.
Il parallelo potrebbe apparire inizialmente azzardato. Si tratta di due film molto diversi tra di loro, ma estremamente simili nelle premesse e nelle conclusioni (e a voler essere onesti il film di Nolan è pieno di citazioni al film di Kubrick che un occhio anche poco allenato potrà facilmente individuare).
Entrambe le pellicole si sforzano di esplorare un confine sconosciuto come quello del tempo e dei suoi effetti nella vita dell’universo: l’esplorazione e la curiosità umana sono la chiave di volta che sorregge l’architettura della trama; i protagonisti principali vivono esperienze molto simili anche se con risultati diversi.
La vera differenza tra i due film è il livello di chiarezza scelto nella narrazione: Kubrick amava lasciare allo spettatore il compito di elaborare una propria teoria su quanto stesse succedendo sullo schermo (e forse è proprio questo uno dei motivi per cui 2001: Odissea nello Spazio non fu compreso immediatamente dal pubblico) non dando troppe spiegazioni scientifiche e lasciando parlare le immagini; Nolan è invece un regista che “ama spiegarsi”, giustificare il proprio operato mettendo una teoria scientifica o pseudo-scientifica nelle fondamenta della trama (come ad esempio la teoria della condivisione dei sogni in Inception).
Importante è anche il lato tecnico. Parlavamo prima di un abuso di effetti digitali nel cinema contemporaneo: Nolan ritorna alla classicità del genere anche sotto questo aspetto, riducendo al minimo l’impiego di ricostruzione virtuale abbandonando i fondali verdi.
Il risultato è sicuramente uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni. Non si tratta di un film facile, ma di un lungo e complesso viaggio nello spazio, nel tempo e nell’imprevedibilità. Un' esplorazione che ha come protagonista l’uomo, eternauta senza pace di ogni angolo dell’universo. Una discesa nelle tenebre dell'ignoto, in cui l'infinitamente lontano è l'unico mezzo per ritornare a casa.