‘The Old Oak’ è un film necessario, che ci insegna la potenza della solidarietà dal basso e delle imprese collettive tra i migranti fuggiti dalla Siria e TJ Ballantyne, un attivista figlio di minatori nell’Inghilterra del nord
Due uomini uniti da un fil rouge di senso: Ken Loach e Michele Rech (Zerocalcare) si sono incontrati a Roma per accogliere e commentare, questa settimana, il film del regista britannico, 'The Old Oak' presso il cinema 'The Space' della capitale. A 87 anni, Loach trova la forza per incontrare centinaia di persone che si recano con entusiasmo alle presentazioni dei suoi film, tra cui lo spazio occupato 'Spin Time Labs' e diversi cinema a Roma. 'The Old Oak' è un film che parla della solidarietà che parte dal basso, tra i migranti fuggiti dalla Siria e TJ Ballantyne, un attivista figlio di minatori nell’Inghilterra del nord. L'Old Oak è pub, ma non è solo luogo di ritrovo: è il simbolo della condivisione collettiva, della lotta tra poveri per sopravvivere in un mondo spietato, dove il protagonista troverà impedimenti e difficoltà. Del resto, lo sottolineerà lo stesso Loach dopo la proiezione del film: “E' un periodo oscuro”, quello che stiamo vivendo. Ed è frequente che ci si metta l’uno contro l’altro. Quando a Yara, giovane donna siriana, viene danneggiata di proposito la macchina fotografica, il primo nobile gesto di TJ è quello di porvi rimedio vendendo la propria attrezzatura fotografica, in un simbolico passaggio del testimone (la documentazione è la prova di un evento senza la quale non esisterebbe, come un albero che, cadendo senza nessuno ad ascoltare/vedere, non fa rumore, ndr). E Yara, in quanto fotoreporter, grazie a TJ e attraverso quella macchina fotografica può continuare a raccontare la sua storia e quella della sua gente: può continuare a lavorare. “Quando si attraversano momenti difficili, trovare un capro espiatorio è la soluzione meno impegnativa” è una delle frasi pronunciate nel film. E sembra la trasposizione di ciò che avviene in questi giorni, dove abbiamo visto spacciare gli ultimi della Terra (i migranti) per dei privilegiati, in cui la comunicazione mediatica spesso restituisce una narrativa parziale, con vittime di guerra di serie A e di serie B. L’incontro tra Loach e Rech si è svolto su più piani. Abbiamo spesso visto entrambi prendere posizioni radicali, dove l’assenza diviene atto politico per esprimere dissenso. Loach, nel 2012, si è rifiutato di ritirare il premio a lui conferito al Tff (Torino Film Festival), per solidarietà con i lavoratori sfruttati, che hanno dichiarato di essere pagati 5 euro lordi l’ora. Zerocalcare, invece, ha recentemente rifiutato di andare al 'Lucca Comics' per il patrocinio dell’Ambasciata israeliana dato all’iniziativa. Una decisione sofferta, ma presa con consapevolezza, viste le stragi a Gaza. Anche nel 2019, il fumettista aveva deciso di annullare i suoi impegni al Salone del libro di Torino per la presenza della casa editrice neofascista Altaforte. Entrambi osservano il mondo dalla stessa prospettiva di umanità e fratellanza laica, propria delle lotte della classe operaia. Uno dei primi commenti di Zerocalcare è stato: “Ho ‘rosicato’ che ai titoli di coda abbiano tradotto ‘resistenza’ con ‘resilienza’”. La parola compare in uno striscione e quella traduzione, in qualche modo, indebolisce il significato semantico. Se “resilienza” è ormai un termine abusato, “resistenza” porta con sé la storia dei movimenti partigiani contro il nazifascismo, la militanza operaia, l’opposizione alle invasioni di prepotenza bellica. Il film di Loach parla di migranti siriani. E non dimentichiamo che Zerocalcare, (conosciuto ai più per le serie a cartoni su Netflix) è stato più volte in Siria quando c'era l'Isis, per supportare i curdi e coloro che combattevano sul campo lo 'jihadismo'. Indimenticabile il suo 'Kobane Calling' del 2015: un reportage in forma di fumetto del viaggio che ha portato l'autore al confine tra la Turchia e la Siria, a pochi chilometri dalla città assediata di Kobane, tra i difensori curdi (Ypg e Ypj) del Rojava, opposti alle forze dello Stato islamico. Loach nomina spesso Paul Laverty, sceneggiatore di molti suoi lungometraggi, tra cui il meraviglioso 'Io, Daniel Blake', palma d’oro a Cannes. E lo fa dimostrando, anche in questo passaggio, rispetto per il lavoro dei suoi collaboratori. Difficilmente s’incontra lo stesso comportamento da parte dei registi italiani, nonostante la sceneggiatura sia il cuore pulsante di tutto il film. Ken Loach ha dichiarato che, vista la sua età, probabilmente questa sarà la sua ultima opera. Quando ciò avverrà, ci mancherà terribilmente il suo sguardo sul mondo, che ci racconta il dolore e il riscatto di chi ha introiettato la convinzione che “la speranza è oscena”. Anche perché, come dice il grande regista, “chi ci governa favorisce la disperazione”. Così come ci manca tantissimo lo sguardo di Valentina Pedicini, regista brindisina prematuramente scomparsa a soli 42 anni, nel 2020, che realizzò un documentario nel 2013 sulle lotte degli ultimi minatori di carbone della Carbosulcis, in Sardegna, portandoli a sfilare sul red carpet del Festival del cinema di Roma. Tutti occhi che, guardando una cattedrale, penserebbero che non si tratta solo di una struttura religiosa, ma di un luogo sacro (in senso laico), che appartiene agli operai che l’hanno costruita.
QUI SOPRA: KEN LOACH E ZEROCALCARE ALLA PRESENTAZIONE DI 'THE OLD OAK' PRESSO IL CINEMA ROMANO 'THE SPACE'
AL CENTRO: MICHELE RECH IN ARTE ZEROCALCARE
IN APERTURA: IL REGISTA BRITANNICO E IL FUMETTISTA ROMANO NEL MOMENTO DI ARRIVO IN SALA