Il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti regala allo spettatore emozioni raramente riscontrabili in un film italiano: la storia di un supereroe italiano, ambientata nella periferia di Roma, coinvolge e stupisce lo spettatore grazie a un ritmo intenso, una sceneggiatura fuori dal comune e degli interpreti straordinari. Una vera 'boccata d’ossigeno' per il nostro cinema, stancamente fermo nei suoi parametri tradizionali
“Incredibile!”. “No, no, no, non possono esserci riusciti”! “Alleluia! Alleluia! Alleluia”! Questi sono solo alcuni esempi dei pensieri e delle emozioni che si provano una volta arrivati ai titola di coda di 'Lo chiamavano Jeeg Robot', primo lungometraggio del romano Gabriele Mainetti con protagonisti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e Ilenia Pastorelli. Il salto emotivo che si verifica tra l'ingresso e l'uscita, tra il classico pessimismo che accompagna buona parte della produzione cinematografica 'Made in Italy' e l'incontenibile gioia che spinge a gridare al miracolo, è talmente brusco da lasciare confusi e disorientati. 'Lo chiamavano Jeeg Robot' è la dimostrazione che tutti gli appassionati di cinema - e non solo loro - stavano aspettando da anni: se si ha un po' di coraggio e qualcuno alle spalle che ti consente di lavorare in tranquillità, è possibile creare un prodotto originale, innovativo e tecnicamente superbo anche in Italia. La sfida era ardua e di certo non tra le più agevoli: sfruttare il successo dei film sui supereroi americani (i cinemcomics), creando un personaggio nuovo, italiano, originale e credibile in un contesto nostrano. La storia è quella di Enzo Ceccotti (Santamaria), piccolo delinquente di borgata a Roma, che sopravvive con piccoli furtarelli, confezioni di budini e dvd pornografici. Questo fino a quando un incidente dona al nostro protagonista una forza e una resistenza sovrumana, mettendolo di fatto di fronte ad una scelta: proseguire nella sua esistenza misera e diventare un super-criminale, oppure seguire il cuore e l'amore per la bella e problematica Alessia (che lo identifica con l'eroe del manga giapponese Jeeg Robot d'Acciaio), per fermare i piani di ascesa nella malavita romana di Fabio Cannizzaro (uno straordinario Marinelli) detto 'Lo Zingaro'. Gli elementi della storia classica, l'eroe riluttante e un cattivo senza scrupoli, ci sono tutti e in apparenza potrebbero far apparire l'intreccio banale. In realtà, Mainetti è abilissimo a prendere gli 'stereotipi' del supereroe, traslandoli in un contesto decadente come la periferia est della capitale sfruttando delle atmosfere che già si sono viste in 'Romanzo criminale' - la serie e del recente 'Suburra', adattandole perfettamente allo svolgimento degli eventi, riuscendo a emozionare lo spettatore, coinvolgerlo e stupirlo. Il film di Mainetti arriva sul mercato in un momento di vera 'saturazione' dello stesso, in un affollamento quasi nauseabondo di pellicole dedicate ai supereroi, rischiando in questo senso di presentarsi come una semplice riproposizione stanca di iconografie e tematiche che non fanno parte del background culturale italiano. Si gioca con il carattere del personaggio, introverso ed egoista, e sulle possibili conseguenze che le sue scelte potrebbero causare: seguire la strada dell'eroe o quella del criminale. Semplice e tremendamente efficace. Un plauso particolare va fatto all’interpretazione di Luca Marinelli, che è riuscito a portare sullo schermo un cattivo vero, folle, senza scrupoli e viscido come non se ne vedevano da anni, vicino sotto molti aspetti alla personalità del Joker di Batman. L’intento era quello di stupire e dimostra che, in Italia, questo genere di film non solo si possono realizzare, ma anzi si devono realizzare. Tutto in 'Lo chiamavano Jeeg Robot' grida originalità e passione, dall'uso della telecamera mai eccessivamente 'virtuoso' ma comunque affascinante (la sequenza dell'assalto dello Zingaro ai criminali napoletani è semplicemente magistrale), alla gestione dei momenti di riflessione all'azione più cruenta, approfondendo il carattere dei personaggi e le loro motivazioni in maniera credibile senza abusare di strereotipi. Il tutto coadiuvato da una fotografia di altissimo livello e una sceneggiatura perfettamente strutturata. Lo stesso Jeeg Robot, il personaggio creato da Gō Nagai nel 1975, viene inserito nella narrazione in maniera fluida, come elemento funzionale allo svolgimento della trama e non come semplice espediente per attrarre i nostalgici dei robot giapponesi degli anni '70: le somiglianze tra Enzo e Yoshi Shiba (il protagonista del manga originale) sono infatti evidenti, ma mai forzate, in modo da rendere il percorso di identificazione tra i due efficace in un contesto atipico. Volendo essere onesti un primo tentativo di creare un 'cinecomic italiano' era già stato fatto da Gabriele Salvatores con il film 'Il ragazzo invisibile'. Una pellicola sicuramente interessante, ma che a causa di un tono eccessivamente drammatico, di scelte registiche fin troppo 'asettiche' e di un casting molto più che discutibile, non era riuscita ad imporsi all’attenzione del grande pubblico. La speranza, a questo punto, è che 'Lo chiamavano Jeeg Robot' possa essere il trampolino di lancio per un nuovo cinema italiano di 'genere', qualcosa di nuovo per la nostra produzione fiaccamente immobile nel riproporre gli stessi generi (la commedia e il dramma melenso). Un’inattesa 'boccata d’aria fresca' per il cinema tricolore.