I marchi Ceres e Bavaria in occasione delle elezioni politiche hanno lanciato una campagna pubblicitaria per le loro birre con spot sarcastici, che fanno il verso a quelli dei manifesti elettorali. Divertenti o di cattivo gusto? Oppure è la politica nostrana ad aver adottato campagne di comunicazione troppo pubblicitarie alla stregua di un qualsiasi prodotto di consumo?
La campagna elettorale si è da poco conclusa, accompagnata come sempre da slogan politici diffusi con ogni mezzo mediatico messo a disposizione: declamati nei talk show televisivi, ‘cinguettati’ su twitter, postati sui più noti social network, strillati nelle piazze e, naturalmente, stampati in formato gigante sui manifesti elettorali. E proprio di questi ultimi vogliamo parlare. Perché, cari elettori che siate andati a votare o meno, contenti o delusi dal risultato finale, nell’immenso flusso degli spot elettorali dei giorni scorsi sono passati anche ‘altri’ messaggi, che di politico avevano solo la veste, ma non il contenuto. Le aziende produttrici di birra, la danese ‘Ceres’ e la olandese ‘Bavaria’, hanno lanciato nuovi messaggi pubblicitari facendo un po’ il verso ai manifesti politici. “L’Italia ha bisogno di eroi”, “Prima si vota, poi si beve. Non come le altre volte”, “Meno tasse, più casse” sono alcuni degli slogan per i quali, ci scommettiamo, più di qualcuno avrà sorriso, a conferma che la freccia scagliata ha colpito il bersaglio. E la corda dell’arco è ancora tesa per scoccare altri dardi che puntano dritti al centro, con convinzione: “Più che alla Camera puntiamo al divano”, e vai che qui dal sorriso si è passati alla risata. Anche se poi quel “Vuota Bavaria”, pur col gioco di parole, rievoca certe forzate imitazioni linguistiche russo-italiche. Ora, questi manifesti, seppur viaggiando in parallelo con la campagna per le elezioni 2013 appartengono, di fatto, a un’altra campagna elettorale. Qualcuno li avrà notati, qualcun’altro no. Sicuramente, la parte dell’elettorato più giovane, cui erano rivolti, li ha intercettati. Sta di fatto che la loro presenza è scivolata via, mescolandosi nel circuito mediatico che in questi giorni è stato ‘occupato’ dai temi delle politiche. Questi slogan ‘alternativi’, definiamoli così, hanno suscitato simpatie soprattutto tra il pubblico di fascia giovane e qualche perplessità in quello meno avvezzo a certe forme comunicative, che invece oltreoceano sono utilizzate con successo da anni. In fondo, i due noti brand cos’hanno fatto? Il momento che precede una elezione, quello della campagna elettorale, ha una forza mediatica unica in un Paese. Strategicamente parlando, per un’azienda che voglia attirare la giusta attenzione è il momento più proficuo per lanciare una campagna in grado di raggiungere in brevissimo tempo una platea più ampia possibile. Si tratta di una strategia nota con il nome di “political newsjacking”: sfruttare la popolarità delle elezioni cavalcandone l’onda, breve ma intensa. Da questo punto di vista, non possiamo dar loro torto. Eppure c’è chi, tra i politici, ha storto il naso. Ma come, proprio loro che hanno per anni utilizzato il linguaggio pubblicitario allo scopo di lanciare vane promesse elettorali? Anche se, a leggere alcuni manifesti politici si direbbe che ne hanno da imparare ancora un bel po’ di marketing e strategie elettorali vincenti. A tal proposito, citiamo alcuni tra i manifesti, forse, più memorabili. Quello della partita a Ruzzle vinta da Bersani contro Berlusconi (“Venti belle parole” contro “10 brutte parole”); quello del Pd per Ambrosoli (regionali Lombardia) in cui la sollecita frase “Vi facciamo una Regione così” era amplificata dal tipico gesto delle mani a dita aperte con cui spesso si accompagna la nota minaccia; quelli, ancora, rievocativi e populisti di Grillo per cui, se oggi fosse qui con noi, “Anna Frank voterebbe Movimento 5 stelle”; è poi da ‘riesumare’ - sembra proprio il caso di dirlo - il manifesto voluto da un politico di Ostia non per promuoversi in campagna elettorale, ma per rassicurare i cittadini circa il suo impegno politico, preso in una passata elezione e ora mantenuto: “Grazie al consigliere Bonvicini, cinquemila loculi nel cimitero di Ostia Antica: impegno preso, parola mantenuta”; e chiudiamo con l’ultimo capolavoro di ‘Fratelli d’Italia’, un video in cui due candidati suggerivano agli elettori: “Votate con la testa, non votate con il culo”. Come si può capire, ce n’è per tutti i gusti: il campionario è vasto e ‘variopinto’, come il suo elettorato. Ma questa ‘policromia’, per i guru della pubblicità è pane quotidiano. Pronti e attenti a studiare le dinamiche e i mutamenti della società fanno il loro mestiere: intercettano i gusti, in qualche modo a volte li anticipano e li indirizzano. Perplime un po’ il constatare che il messaggio di un politico che mira alla elezione non differisca molto da quello di un ‘creativo’. Il candidato deve parlare alla gente, sperando che il suo programma politico giunga a quante più persone possibili in maniera chiara e immediata. Ma il trasformare la promessa elettorale in ‘emozione’ o ‘scelta impulsiva’ rischia di sminuire il valore e l’etica che dovrebbe essere alla base di una ideologia. Insomma, la promessa elettorale non può essere equiparata a un’argomento di vendita, perché la politica esula dalle normali regole e logiche del mercato pubblicitario. Gli esempi in questione della Ceres e della Bavaria evidenziano che il mondo della pubblicità ‘ruba’ modelli politici (che in realtà sarebbero sempre i suoi) per giovarsene. Più esattamente, si riappropria di quel che ha offerto. Dietro queste campagne pubblicitarie c’è dunque una strategia pianificata con attenzione, una intelligenza mediatica che non si è mossa a caso, bensì ha approfittato della situazione. Crediamo poco alle parole di Bozza, il creativo dell’agenzia ‘Bcube’ da cui è nato lo spot Ceres, secondo cui quello voleva proprio essere un invito rivolto a “evitare l’astensionismo, a essere responsabili davanti all’urna così come quando si beve”. Anche ammettendo il messaggio civico in quanto intrinseco ‘valore aggiunto’, si tratta di pubblicità per vendere un prodotto. Perché politica e pubblicità sono - o dovrebbero essere - due cose diverse e uno spot elettorale, formalmente predisposto come una qualunque reclame, in sostanza deve trasmettere contenuti diversi. Quella intrapresa dalle aziende in questione è, inomma, un’azione di political newsjacking che, oltre a inserirsi in un momento mediaticamente importante, va a sfruttare quell’idea, diffusa in molti italiani, secondo cui la politica è ormai priva di ogni etica pubblica, che i politici siano tutti ‘venditori’ spesso ingannevoli, specula, in qualche maniera, su questi due aspetti che caratterizzano l’attuale panorama politico. In un mondo in cui tutto è comunicazione, la politica sembra reggersi con le stampelle e a stento giungere in piedi al traguardo. I veri professionisti della pubblicità, infatti, corrono più velocemente. E non potrebbe essere altrimenti: anche un momento fondamentale come quello delle elezioni ormai passa sotto la lente di ingrandimento del ‘grande carosello mediatico’. Eppure, quello della campagna elettorale dovrebbe essere uno di quei momenti ‘alti’ e ‘ispirati’ della vita di un sistema basato sulla sovranità popolare e sul pluralismo democratico. Invece, molta di quella ‘ispirazione’, come mostrano i cartelloni pubblicitari che abbiamo citato, si è completamente dissolta, nessuno sa dove. Non vorremmo fare di tutta l’erba un fascio, ma la classe politica italiana ne esce ridicolizzata. Il messaggio distorto lanciato dai manifesti politici è stato davvero efficace? E cosa ha trasmesso agli elettori? Che anche Bersani e Berlusconi giocano a Ruzzle, ma che il primo è più bravo del cavaliere? Che il Pd è violento e ‘ce lo farà grosso così’ se lo voteremo? Che l’armata di Grillo, con il ricorso al populismo protestatario vorrebbe convincerci che la povera Anna Frank, con tutti i problemi che aveva, pur non essendo una cittadina italiana oggi voterebbe per la ditta di Casaleggio? Che votando Bonvicini potremo dormire sonni tranquilli in tutti i sensi? Il movimento di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, ha definito la campagna Ceres “greve e antidemocratica”. Mah! Tirando le somme, l’altra campagna ci è sembrata molto meno di cattivo gusto: più ironica, diretta, efficace, anche se il suo fine è meno nobile della politica, a cui ha fatto il ‘verso’. Non ci meraviglieremmo se, attraverso il messaggio pubblicitario delle aziende birraie, molti giovani rompessero gli indugi e si spogliassero dell’apatia di cui si sono rivestiti per tenersi separati dalla politica. Se il voto val bene una birra, allora ben vengano anche altri spot del genere, per muovere giovani flemmatici e demotivati. Ma è triste pensare che la ‘X’ tracciata sulla scheda elettorale possa essere il frutto di strategie commerciali, di ‘affinità elettive’ (non elettorali) con questo o quel marchio (non simbolo). Forse è vero che sono cambiati radicalmente i tempi dell’agire politico. Sono mutati sia gli attori, sia gli spettatori. Il linguaggio mediatico si è evoluto nel tempo, quello politico arranca faticosamente in un’idea di modernizzazione che sfiora il ridicolo. Non è un caso se questa campagna elettorale verrà ricordata per il cagnolino di Monti, il master di Giannino, la lettera di Berlusconi alle famiglie e la sedia di Travaglio da Santoro. E non ci meravigliamo se la maggior parte degli elettori non riesce a sintetizzare il programma dei diversi Partiti (‘abolire l’Imu’ e ‘mandare tutti a casa’, sono i refrain politici con cui per un mese il Cavaliere e il comico genovese hanno tartassato il Paese). Semplificare il linguaggio e parlare alla pancia della gente: questa pare essere la regola nell’attuale momento di crisi economica e istituzionale italiana. Perché, come ha ossevato il linguista Tullio De Mauro: “Più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta e, molti, anche quella parlata”. I temi della politica, insomma, non dovrebbero essere sintetizzati in ‘slogan’ che, oltretutto, non vengono approfonditi e meglio spiegati nei dibattiti politici. Non sono gli spot ‘pseudoelettorali’ a essere di cattivo gusto, poiché essi parlano direttamente, immediatamente e in maniera ironica al loro pubblico, con un linguaggio ‘fresco’ e giovanile. E’ la loro vicinanza e concomitanza agli altri messaggi elettorali, per via di un confronto istantaneo inevitabile, a sminuire i secondi, dimostrando l’insufficienza e la miseria dei troppo ‘politicanti’, sempre più alla deriva e distanti dall’elettorato. Occorre uscire da un’ottica populista e rivedere il modo di comunicare un programma, una idea, un progetto politico. Detto questo, cari e-lettori, stappatevi pure la birra che più vi piace: la scelta di qualità, almeno in questo caso, sarà davvero ampia. (www.laici.it)
Il sentire comune come campagna marketing
di Francesca Buffo
Voci dalla piazza per promuovere la piazza. Potrebbe sembrare un riferimento a Grillo (uffa che noia!) è invece si tratta della campagna pubblicitaria di Piazza Italia di queste ultime settimane. Denominata “COGITO, ERGO EXPRIMO” la campagna propone 10 volti di giovani anonimi che lanciano messaggi di elegante ironia sulla situazione attuale italiana.