Lettera aperta agli artisti del Roma Fringe Festival che si accingono ad affrontare una lunga e difficile competizione teatrale, sottoponendosi al doppio giudizio di pubblico e critica
Carissimi ragazzi del Roma Fringe Festival, quando si sale sul palcoscenico inizia l’esperimento della grande ruota che gira, nella speranza che esca il numero giusto e voi possiate ottenere quelle 60 righe che vi chiedono: “Ma voi chi siete? Ci sono almeno un migliaio di nomi che girano nella mia testa prima del vostro”. Si potrebbe chiamarlo ricatto, ma questo è l’unico modo che conosciamo per riequlibrare il giudizio di quella ‘vox populi’, che assai raramente coincide con la ‘vox Dei’. Almeno adesso lo sapete, una volta per tutte, a cosa ‘diavolo’ serve la critica e una giuria di qualità. Sul palcoscenico puoi trovare politici di strada che saltano sui tavoli delle birrerie e ti dicono cosa fare: artisti falliti devastati da una guerra, che hanno scoperto quanto sia meglio chiedere agli altri di farla per lui e quanto torni comodo a tutti scaricare ogni colpa sulle spalle di qualcun altro. Lo capite cosa ‘diamine’ ci stiamo a fare noialtri? Diciamolo francamente: al pubblico piace che qualcuno salga sul palcoscenico, per vedere se è possibile generare l’ennesimo ‘mostro’ oppure, in caso contrario, potervi accusare di esibizionismo, di mettervi in ‘vetrina’ per riuscire a entrare alla Rai, o finire in quel di Cologno a guardarvi intorno, tra ‘teste piatte’ ed emeriti imbecilli. Sul palcoscenico, le attrici donne sono tutte ‘ragazze squillo’, figlie di madri che hanno sognato un esercito di fidanzati. Lo capite perché dev’esserci una critica che vi dica francamente ciò di cui avete bisogno, quanta strada c’è ancora da fare, cosa dovreste rimettere a posto? Sul palcoscenico, vi vestirete in gilet spalmati di brillantina, per dimostrarci che sapete galleggiare attraverso la notte, per un applauso atteso come la manna dal cielo, per provare a chiedermi cosa penso di voi: ma io che ne so? Cosa conosco veramente di voi? Noi scriveremo soltanto che avete voluto salire sul palcoscenico per farci vedere il vostro sudore che brilla, perché questo è l’unico modo per cercare un’esistenza diversa, sin dai tempi della Grecia più antica. E’ sempre andata così e io non so neanche bene perché: non lo so e non lo voglio sapere. So soltanto che ci saremo anche questa volta, in queste notti di fine estate illuminate da luci colorate, per dirvi ciò che dovreste sapere, per consigliarvi come s’impara l’arte che, prima o poi, vi chiederanno di mettere da parte per poter scrivere, nero su bianco, quel che secondo gli altri valete, cari angioletti di papà, dolcissime ‘pulzelle’ di mammà, sperduti tra le migliaia di nomi che circolano nella mia testa: da Chaplin a Petrolini e molti altri. Sappiatelo, una volta per tutte: salire sul palcoscenico non viene considerato un vostro modo di riprodurre la realtà, ma un parlare ‘ex catherda’ per dimostrare di essere diversi, per fuggire da voi stessi senza neanche sapere perché. Per farci vedere cosa vi distingue dagli altri, o potrebbe innalzarvi al di sopra di tutti, sottoponendovi al cosiddetto "giudizio del pubblico". Il quale, dopo aver regolarmente generato, nel corso della Storia, autentici ‘mostri’ (da Hitler a Mussolini, da Berlusconi a Beppe Grillo) vi dirà che quelli con la ‘faccia tosta’ siete voi, ché avete avuto l’ardire di salire su un palcoscenico. Non per lavoro, bensì soltanto per mettervi in cattedra.
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