La commissione parlmanenta d’inchiesta sulla pandemia da Covid 19 non sembra approdare a nulla che non si sapesse già: in pratica, era inutile farla, poiché pur tra errori e incertezze, sembra evidente che grandi casi di dolo o anche di errore grave non ve ne furono
La commissione parlmanenta d’inchiesta sulla pandemia da Covid 19 non sembra approdare a nulla che non si sapesse già. In pratica, era inutile farla, poiché pur tra errori e incertezze, sembra evidente che grandi casi di dolo o anche di errore grave non ve ne furono. Forse, il piano pandemico del 2006 andava aggiornato anno dopo anno. Ma in merito a questo aspetto, si dovrebbero ascoltare tutti i ministri della Sanità che si sono avvicendati negli anni, da Francesco Storace in qua. Nessuna pandemia ci aveva colpiti per quasi un secolo. Dunque, si trattò di un evento imprevedibile. Anche il protocollo di cura andava, forse, attenzionato meglio. Quanto meno per comprendere quale farmaco fosse più efficace contro il Covid 19. Ma anche in questo caso, vi fu uno sbandamento evidente dettato da ragioni puramente oggettive: solo la sperimentazione poteva chiarire meglio come combattere un virus molto contagioso tramite la farmacologia. Per lungo tempo, i nostri medici furono costretti costretti a muoversi per tentativi, al fine di comprendere le caratteristiche del virus e capire come combatterlo. In passato, tuttavia, le cose andarono molto peggio: dalla peste di Atene a quella di Marco Aurelio, da quella di Giustiniano a quella del Boccaccio, si ricordano non solo i sintomi perniciosi e inizialmente sconosciuti, ma anche e soprattutto la trascuratezza dei riti di sepoltura e la solitudine in cui si moriva. Per esempio, la peste del Boccaccio durò, in realtà, trecento anni, con ondate diverse in tutta Europa. E divenne la peste del Manzoni, da cui emerse, in linea con il movimento romantico, il dolore dell’uomo di fronte alla malattia e alla morte. Un esempio per tutti, il 'passo' relativo alla morte della piccola Cecilia. Con il termine generico di peste si era inteso, per secoli, un insieme di malattie sconosciute, a cui bisognava far fronte senza avere rimedi medici: il vaiolo e il morbillo, per esempio. La prima vera epidemia di peste fu quella avvenuta sotto Marco Aurelio, di cui lo stesso imperatore-filosofo morì lasciando, però, un segno della sua presenza più efficace di qualsiasi conquista militare: il trattato filosofico 'stoico', scritto in greco e dedicato a se stesso. Un’opera con cui occorre che si confronti chiunque abbia a cuore il dolore dell’uomo di fronte alla morte e alla fragilità della vecchiaia, che ricorda con nostalgia melanconica le prodezze e gli amori della giovinezza. Vivere questi eventi marchia per sempre il singolo e la collettività, inducendo a riflettere sulla caducità della condizione umana, che passa su questa Terra con un destino non dissimile da quella delle foglie, destinate a cadere. Così ci soccorre la poesia di Mimnermo o quella di Pindaro, che parla dell’uomo come “sogno di un’ombra”; o quelle di Ungaretti e Montale, intrise di consapevolezza per la fragilità dell’uomo. Nondimeno, il Leopardi accusa il “secolo superbo e sciocco” per il suo delirio di onnipotenza, credendo nelle “sorti progressive”. Ma tra tutti si eleva il primo stasimo del coro dell’Antigone di Sofocle, tragediografo del V secolo a. C. in cui la consapevolezza di dover morire spinge lo sguardo verso una 'ulterità', come direbbe il filosofo, Umberto Galimberti: “Molte sono le cose straordinarie, eppure nulla di più straordinario dell'uomo esiste; questo anche oltre il grigio mare con tempestoso vento avanza, sotto ondate rumoreggianti procedendo, e tra le dee la più alta, la Terra indistruttibile, instancabile (egli) logora calcando aratri di anno in anno, trattandola con specie equina. E la stirpe degli uccelli dalla mente leggera (egli) caccia circondandola e i popoli delle fiere selvagge e gli esseri marittimi delle profondità con spire cucite in forma di rete, l'uomo ingegnoso; e si impossessa con stratagemmi della fiera selvatica che vive sui monti, e il cavallo dalla lunga criniera sottomette al giogo ricurvo e il toro montano instancabile. E voce e volatile, pensiero e sentimenti di convivenza (egli) apprese, e a fuggire le intemperie di geli inabitabili e i colpi di forti piogge ricco di espedienti in ogni situazione; privo di espedienti a nessuna situazione futura si presenta; soltanto da Ade scampo non troverà; eppure rimedi contro malattie inguaribili ha escogitato”. Quindi, l’uomo, essere prodigioso, ha solcato il mare infecondo, ha aggiogato i monti, ha sconfitto le malattie, ma nulla può contro la morte. Questo ci spinge a pensare al nostro destino oltre la morte, con cui siamo costretti a fare i conti. E ci ricorda la sacralità di una degna sepoltura come esempio e memento per le generazioni future. Gli uomini trovano nel funerale e nel rito della sepoltura una modalità di consolazione, affidando il corpo del proprio caro alla speranza di una resurrezione, alla metempsicosi o alla reincarnazione. Da Platone in poi, molti uomini, non solo i sapienti, credono nell’immortalità dell’anima. Ma sacro è anche il corpo, a partire dalla mummificazione egizia. A Tebe di Beozia capitò, secondo il mito dei Labdacidi, presente nei tragici, specie in Sofocle, che i figli diretti di Edipo re, ovvero Antigone, Ismene, Eteocle e Polinice, si imbarcassero in una brutta avventura secondo i principi della nèmesi storica, per cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Qui regnava il tiranno Creonte, loro zio, che lasciò il trono in eredità a Eteocle e Polinice, che avrebbero regnato ad anni alterni. Alla fine del primo anno di trono, Eteocle non volle restituire il potere al fratello Polinice. Questi allora si alleò con sei prodi guerrieri di Argo e mosse guerra a Tebe, che schierò sette guerrieri, tra cui lo stesso Eteocle. I Tebani ebbero la meglio, ma “in un sol giorno di duplice strage”, racconta Sofocle ne 'I sette contro Tebe', i due fratelli si uccisero reciprocamente. Creonte ordinò di dare sepoltura a Eteocle e di lasciare agli uccelli e ai cani il corpo di Polinice. Ma qui interviene la sorella Antigone a gettare un pugno di terra simbolico sul corpo insepolto del fratello, mentre la timida Ismene piange ed è reticente ad agire. Antigone viene chiusa in una caverna e quivi muore. Di conseguenza, si suicidano anche il figlio di Creonte, suo aspirante sposo e la moglie, disperata per l’esito di questa disavventura. Secondo lo schema 'hegeliano', la nobile Antigone rappresenta la legge del sangue e degli dei, che ha cura degli affetti familiari e del rito della sepoltura, mentre Creonte incarna la 'Ragion di Stato', che si impone con tracotanza. Questi dovrà pagare con una lunga catena di sangue il suo strapotere e morirà disperato, mentre Antigone vive nell’immaginario collettivo come la paladina dei valori della famiglia, che combatte contro il patriarcato del tiranno, riaffermando l’antico matriarcato e la donna come custode della tradizione. Attraverso il dolore di Antigone, si dà voce a tutti i famigliari che non possono assistere e curare i propri cari, mentre il rito della sepoltura si consuma in solitudine. Ma anche la 'Ragion di Stato' non è tirannica, come alcuni 'negazionisti' credono o pensano: le misure presa dai vari governi per combattere le catastrofi sono da rispettare, poiché hanno a cuore il contenimento del male.
QUI SOPRA: L'HUB VACCINALE MILANESE DI PALAZZO DELLE STELLE
AL CENTRO: IL TRIONFO DELLA MORTE DI PIETER BRUEGEL IL VECCHIO (1562)
IN APERTURA: LA COMMISSIONE D'INCHIESTA SULLA PANDEMIA DA COVID 19 PRIMA DI UNA RIUNIONE