Ci sono persone o personaggi più autorevoli di altri, ai quali, in virtù proprio del loro prestigio, è consentito o perdonato una formula sboccata della lingua. Così il turpiloquio è diventato 'moda', se non pretesto populista per guadagnare consensi...
Oh, cacchio, scusate il termine, ma qui, come si può intuire, il turpiloquio sarà l’oggetto del contendere. Questo, sia chiaro, non ci autorizza affatto a ingrassare la bocca di oscenità. Le nostre mamme, come le loro ancor prima, piene di amorevoli cure o per mezzo di amare bacchettate sugli acerbi dorsi delle mani - pur sempre animate da nobili intenti - ci hanno insegnato che le parolacce “nonsidiconopuntoebasta!”. I bambini le registrano automaticamente e con un tempismo perfetto, che farebbe invidia a qualsiasi professionista della risata, che faccia del turpiloquio il suo cavallo di battaglia, le declamano, senza capirne il senso, al pubblico, per la gioia di mamma e papà. Evviva l’infantile nonsense.
Ma ora no. Adesso, a ogni buon conto, qualcosa è lecito che sfugga al nostro controllo. Una parolina lasciate pure che scappi, lasciate che la nostra penna possa vergare sul foglio bianco un qualche accidente. è possibile per un uomo che possiede la fede, parlare di Dio con un ateo o viceversa; più difficoltoso per un ateo prospettare problemi religiosi a un altro ateo: le assenze (di fede) in questo caso limitano o addirittura impediscono di entrare in argomentum. Ora, i neurologi hanno dimostrato che nel nostro cervello esiste un apparato specializzato nel produrre e archiviare insulti e imprecazioni. Pensate un po’. Questo significa che possiamo dimenticare le parole, ma mai le parolacce. Come dire che se il turpiloquio fosse una fede, potremmo dimenticare di offrire il segno di “pace” pronunciando la parola, ma mai un belvaff… Non rimarremo mai privi di certe tenere espressioni. Dal Vescovo di Roma al postino di Varese, passando per il fornaio di Poggibonsi, l’impiegato di banca di Firenze, il parlamentare leghista come pure quello targato Pd, il Presidente della Repubblica, quello della Corte dei Conti, la badante rumena, lo studentello secchione o il fuoricorso, la maestra d’asilo, l’integerrimo professore universitario, i baroni delle facoltà di medicina e chirurgia, il bagnino di Forte dei Marmi, il Mago Zurlì, il sagrestano di Pennabilli in provincia di Rimini, i rettori di istituti religiosi e opere pie, le suore del Convento della Carità di Pincopallo, Luigi Gonzaga – ebbene si, anche lui, prima di consacrarsi, diceva “parolacce militari” in assenza della religiosa madre, Marta Tana di Sàntena –. Tutti, almeno una volta, anche soltanto in mente, senza proferirlo a voce alta, hanno pensato, detto, letto o avrebbero voluto lanciare un insulto. Insomma, siamo in buona compagnia. Chiarito il punto, certi quindi che il lettore non si potrà stupire alquanto, siamo in grado di procedere. Anche trivialmente parlando.
Parolaccia, imprecazione, improperio, insulto, bestemmia, invettiva, ingiuria, oscenità, sconcezza, moccolo e potremmo continuare. Il nostro (il mio e il vostro) turpiloquio è tutto questo.
Iniziamo da un dizionario. Treccani online: “turpilòquio s. m. [dal lat. turpiloquium, comp. di turpis «turpe» e loqui «parlare»]. – Il parlare con un linguaggio osceno, triviale, sboccato, o comunque contrario alla decenza” (http://www.treccani.it/vocabolario/tag/turpiloquio/).
Nella nostra era multimediale, il parlare o il sentire parlare in pubblico in maniera scurrile è diventato un esercizio ripetuto con una certa frequenza. Tanto che qualcuno potrebbe percepire il parlare in modo elegante e forbito come la vera trasgressione. In parte, forse, questo è corretto. Ci sono parole, pardon, parolacce usate più come intercalare, alle quali le nostre orecchie si sono abituate. Minchia, cazzo, coglione, stronzo, vaffanculo (Masini docet), merda… Risuonano spesso nelle conversazioni quotidiane e abbracciano trasversalmente tutti i contesti socio-culturali.
Minchia. Soffermiamoci. Sembra aver ricevuto, a differenza delle altre sue colleghe, uno sdoganamento televisivo a tutti gli effetti, in virtù del fatto, forse, di essere percepita più come esclamazione di meraviglia e indifferentemente dal Nord al Sud, pur essendo sicula ab origine. Dire diamine o perbacco, infondo, sembrerebbe più una finzione di meraviglia, uno spettacolo privo di effetti speciali. Invece, giocare con le minchiate - qui perdonatemi - non è turpiloquare: le minchiate da gioco sono le carte fiorentine già in uso nel 1400 (40 figure più la matta).
Al di là dell’aspetto più o meno volgare, la parolaccia inevitabilmente contiene un’aggressività che in altri termini non riusciremmo a esternare allo stesso modo.
La sostanza del discorso sta proprio in questo. Perché la parolaccia è volgare. Nessuno ce lo toglierà mai dalla testa. Ed è altrettanto indubbio che abbia una capacità di espressione più legata agli istinti. Proviene dalle pulsioni, manifesta le passioni e risponde al carattere della persona. Lo studio neurologico di cui si faceva cenno sopra, testimonia giustappunto questo: le parolacce, esattamente come gli altri appetiti istintuali, provengono dalla stessa area del cervello. Le parole, nobili o normali che siano, hanno tutt’altri natali cerebrali.
L’uomo è un animale razionale, ma questo non vuol dire che faccia un uso continuo della razionalità. è anche un possessore di istinti. Ma questa struttura raziocinante, lo rende più adeguato alle situazioni della vita; più acuto nelle difficoltà; deduttivo nelle soluzioni; ponderato nelle scelte; argomentativo nei ragionamenti. In altri termini, si è reso conto che privilegiando la ragione, diviene un essere di gran lunga più efficace e capace di stare a questo mondo. Tuttavia, non può rimuovere definitivamente gli istinti, come i files infetti dalla memoria di un computer. Li sacrifica alla ragione, li doma, li corregge. Per convenienza. Ma permane in lui una predisposizione, una certa inclinazione che non può non manifestare.
La parolaccia consente di liberare nel modo più innocuo questa parte istintuale imbrigliata dalla ragione. Diversamente, saremmo tutti santi o automi di un paradiso meccanico.
Ora, nonostante sia volgare e contenga una marcia in più rispetto alle sue sorelle più nobili, la parolaccia è ripetuta di continuo, vituperata spesso e, a secondo dei casi, accolta con una risata o con una stortura di naso. Perché? Perché la stessa espressione può infastidire o far sorridere? Il Chi, il Come, il Dove e il Quando, potrebbero influenzare i nostri giudizi?
Ci sono persone o personaggi più autorevoli di altri, ai quali, in virtù proprio del loro prestigio, è consentito o perdonato una formula sboccata della lingua.
Il nostro Sommo Poeta ha utilizzato per ben tre volte la parola puttana, con tutti i suoi derivati (femmina da conio, meretrice, femmina balba). Ma la Divina Commedia è piena zeppa di termini volgari. Il canto XXV dell’ Inferno si apre con una terzina niente male: “Al fine delle sue parole il ladro / Le mani alzò con ambedue le fiche, / Gridando: togli, Dio, ch’a te le squadro!”. Si tratta del ladro confesso Vanni Fucci, che nella sua invettiva a Dante, compie il gestaccio di alzare le fiche, ovvero i diti medi, mostrandoli a Dio. Potremmo continuare e scrivere un lungo elenco di termini volgari utilizzati nella Commedia, ma la sostanza è un’altra: Dante usava indubbiamente queste espressioni perché contenevano un severo giudizio morale che in questo modo poteva enfatizzare e diversamente non lo avrebbe potuto esprimere meglio. Probabilmente era lui stesso per primo a percepirne l’oscenità, ma non suscitò scandalo alcuno, così scrivendo. è curioso, ma doveva godere di una libertà di pensiero, di arte e di satira che adesso, forse, non abbiamo. Nessuno oggi potrebbe scrivere ciò che ha scritto Dante, senza esser tacciato di volgarità e snobbato dalla critica.
Il genio di Mozart era solito condire molte delle lettere scritte alla cugina Bäsle con espressioni del tipo: “Stronzo! Merda! Cacca! O dolce parola! Cacca! Pappa! Anche bello! Cacca, lecca! Mi piace! Cacca, pappa, lecca!
Pappacacca e leccalecca!”. Ma era Mozart e la musica, scusate, non ha confini. Sorridiamo, anzi, quasi percepiamo la musicalità scoppiettante di questi versi. Un autentico genio.
“Merde”. Così – a quanto pare - rispose il generale Cambronne, dell’esercito napoleonico, alla proposta di resa offerta da un generale inglese della Settima coalizione, nella celebre battaglia di Waterloo. Merde, per i raffinati cugini gallici, si usa come intercalare col significato di rispondere picche. Buono a sapersi. L’ufficiale, però, temendo di far brutta figura con la moglie, tenne sempre nascosta la verità, confessandola tra le righe ad alcuni commensali molti anni dopo.
Nella dotta Bologna, un tempo, al principio di una via ormai sparita (via Spaderie, dove oggi c’è il portico che va da via Orefici all'angolo con via Rizzoli), era ubicato un Fittone per impedire il passaggio alle carrozze. Presto divenne il simbolo della vita studentesca e dei goliardi dell’epoca che lo scelsero come punto di incontro. Evidentemente qualche abitante della città storceva il naso. Così un prete, ebbene si, proprio un ministro di Dio, scrisse questi versi: “Del nostro municipio questo è il cazzo /e chi veder vuole i coglion, vada a Palazzo.”
La rabbia e il fastidio dovettero ispirare questo distico.
Tralasciamo i sicuri nobili intenti di Dante nell’esercizio del turpiloquio, raro se non unico esempio in letteratura, sorvoliamo sulla creatività linguistica del giovane Amadeus, sulla giustificabile rabbia del religioso bolognese e veniamo a noi, poveri mortali, non letterati, tutt’al più lettori, e soprattutto cybernauti, che navighiamo per i media, zigzagando tra un improperio e l’altro, udito o letto, ma comunque pubblicamente pronunciato.
Appare evidente che la potenza della parolaccia sta in questo: è liberatoria. Autentica esplosione dell’inesprimibile. Non la si medita. Accade. Rabbia, sorpresa, pene, sono state sempre manifestate anche in malo modo. Siamo fatti così. Punto. Nonostante la buona educazione ricevuta da madri timorate o semplicemente giudiziose. In privato, a tu per tu, o comunque in incontri ridotti, se dobbiamo adottare un costume poco consono agli insegnamenti ricevuti, lo adottiamo. E il feedback è fortissimo: l’ interlocutore, dal canto suo, infatti, recepisce subito il messaggio, sentendosi ancora più a proprio agio. Il parlare “terra terra” – cristianamente parlando - ci riavvicina, in un certo senso, al nostro luogo di origine. Ci rammenta chi eravamo, quando ancora l’uso della parola ci era sconosciuto. Quando il rancore contro qualcuno, per esempio, non poteva che essere urlato attraverso suoni forti e accompagnato magari da gesti violenti. Una geniale professoressa di greco e latino di un liceo classico, una volta, in una riunione di classe, ebbe a dire, di fronte ad un uditorio pressoché muto e privo di idee (cito a memoria, essendo stato presente): in una assemblea come questa, io penso sia lecito anche usare parole grosse! Se è necessario, se serve a far capire maggiormente un concetto. Certo, poi, espresse le opinioni, ci si può, anzi, si deve stringere la mano! Parole sante. Come dicono a Roma: quando ce vo’, ce vo’. Roba che anche una suora carmelitana reagirebbe con un convinto applauso.
Pochi sapranno questo: durante le assemblee parlamentari, (mi riferisco al nostro Parlamento) se un deputato o un senatore vuole insultare liberamente un collega, senza farlo sapere all’intera assemblea, può scendere al centro dell’emiciclo e usare una delle macchine stenografiche. Almeno così raccontava un vecchio dipendente del Senato, durante una visita, alcuni anni addietro.
La parolaccia in ambito politico, negli ultimi tempi, si è ritagliata un ruolo a sé. Perché utilizzata da personaggi pubblici, nel senso che sono diventati ormai vip alla pari di tante soubrettes; ma pubblici anche nel senso della carica che ricoprono e che per tale motivo, ci si aspetterebbe un comportamento più consono. L’ insulto “handicappata di merda”, (anche se non è risultato dai resoconti stenografici) pronunciato da un deputato leghista (per giunta neuropsichiatra infantile!) contro la deputata Ileana Argentin, disabile, è roba che fa uscire sangue dalle orecchie. La rubrica Cafonal, su Dagospia, seguitissima dai nostri parlamentari, è la perfetta vetrina espositiva che illustra lo stato dell’arte di certa politica. Forse ha ragione lo studioso Gianluca Giansante, autore di un saggio su parole e politica, quando sostiene che ormai bisogna prendere atto della esistenza del Politainment (politics+entertainment).
In pubblico cambia totalmente la questione. Ognuno risponde del proprio operato. Ma, visto l’andazzo generale, non sembra che ce ne si curi troppo. In politica come altrove. E i nostri media non fanno che da cassa di risonanza a tutto questo. Signore e signori, va ora in onda lo spettacolo del volgare. Risultato? Pessimo. Il tritacarne mediatico macina velocemente, richiedendo di continuo carne fresca da macello.
Fatta eccezione per pochi casi, la parolaccia transita in TV e certamente non lava i suoi panni in Arno. Disturba la gratuità dell’uso sboccato dell’italiano. Qualcuno dirà che tutto è relativo alle fasce d’età: i teenagers possiedono orecchie e cervello avvezzi. Vero. Ma è altrettanto vero che sono sempre di più gli spettacoli televisivi destinati al grande pubblico, ad ospitare comici cafoneschi. Il cafone avanza sotto i riflettori, sgargiante nella sua pacchianeria. L’eleganza, ahimè, in tutti i sensi, non sappiamo dove stia di casa. E se qualcuno si discosta dal modello e appare troppo nobile, di classe, corretto, è da scartare nel sacco dei prodotti non riciclabili.
Spesso un comico poco abile, cerca di strappare risate infarcendo i monologhi di battute sconce. A volte l’operazione riesce, altre volte meno. Il troppo, si sa, stroppia. Benigni nel suo Inno del corpo sciolto o Fiorello, per citare a caso, si sono sempre permessi il lusso di ricorrere a parole volgari, dosandole con esperienza, incanalandole nel giusto ritmo delle battute.
E vogliamo dimenticare la commedia all’italiana degli anni 70? Le madonne dell’Incoroneta di banfiana memoria riecheggiano ancora in molti italiani, strappando al solo pensiero un ampio sorriso. La parolaccia è volgare, ma c’è chi riesce a usarla spogliandola di questa veste.
Attenzione, però. Questo potrebbe essere un messaggio pericoloso, perché attraverso l’accettazione dell’uso di parolacce, si potrebbe pervenire alla loro assuefazione, quindi dimestichezza.
Un recente studio americano ha esattamente illustrato questa azzardata logica. Tanto più i nostri ragazzi ascoltano parolacce in televisione, tanto più saranno aggressivi e propensi nel loro uso (http://pediatrics.aappublications.org/content/128/5/867.full.pdf).
Esiste, tuttavia, un rovescio della medaglia. Parafrasando il famoso detto: una parolaccia al giorno, leva il medico di torno, uno studio inglese ha scoperto che “per molte persone dire parolacce è un rimedio a portata di mano ed efficace contro il dolore” (http://www.jpain.org/search/quick). In pratica le parolacce, ripetute durante un momento di dolore, costituirebbero una sorta di mantra analgesico. E questo probabilmente perché, come si diceva, esse hanno sede in quella zona più profonda del cervello, in cui hanno anche sede le emozioni. Sarà, ma, precisano sempre i ricercatori “se si abusa quotidianamente del linguaggio scurrile, la sua efficacia diminuisce”. I corruttori del lessico nazionale sono avvisati.
Diamo qualche statistica. La prima espressione volgare italica, pare abbia fatto la comparsa ufficiale nel 1084, in un affresco della Basilica di San Clemente a Roma, in cui si legge: “Fili de le pute, traite”. Così il patrizio romano Sisinnio incitava i suoi servi Gosmario, Alberto e Carboncello, affinchè gli portassero San Clemente (www.basilicasanclemente.com/tour/IV/alessio.htm).
Nel film di Benigni Berlinguer ti voglio bene (1977), troviamo la più lunga imprecazione cinematografica: 2’ 15”.
Mentre nel lungometraggio Niente per bocca, di Gary Oldman, sono state pronunciate ben 470 parolacce, 4 al minuto.
Per completezza, ricordiamo che esistono alteratori del linguaggio, i quali non possono fare a meno di ripetere parolacce, in modo compulsivo. Si tratta del disturbo della coprolalia. Lungi da loro, ovviamente, esser volgari. Interessante, semmai, notare come il fenomeno si registri con scarsa frequenza nella popolazione nipponica, la cui struttura linguistica e la cui base culturale contengono poche trivialità.
La parolaccia, per concludere, è più di una parola. è un suono con cui esprimiamo qualcosa di atavico, a ricordo di un tempo immemore in cui invocazioni, litanie e grida uscivano dalla bocca dei nostri antenati. E oggi che possediamo un complesso sistema logico-linguistico, traduciamo quei suoni in parole, che per ovvi motivi non possono essere come le altre. Appunto: parolacce.
In privato emancipano, sbrogliano i lacci, permettendoci di sguinzagliare pulsioni e attitudini che come animali liberati, si uniscono agli altri simili, trovando maggior sollievo e disponibilità, e noi ci sentiamo alleggeriti dal peso di quella forma che si esteriorizza attraverso il savoir faire. Le parolacce sono piccole larve di una brutalità da millenni defunta che a volte, manifestata in pubblico, diviene puzzo sospetto dell’ ancestrale e congenita bestialità che ancora sedimenta sul fondo delle nostre coscienze. Per questo, forse, pubblicamente la temiamo, in una sorta di ripudio collettivo di ciò che un tempo siamo stati. Ne abbiamo percorsa di strada, dalla cacciata dal Paradiso terrestre. Oggi possiamo permetterci il lusso di parlare seguendo un linguaggio forbito e nello stesso tempo pensare in modo scurrile. Siamo in grado di cambiare registro quando e quanto vogliamo.
"Non mi fido di un uomo che non dice parolacce e non bestemmia", diceva Jerome K. Jerome. Sottoscriviamo. Ma ricordiamo anche che il turpiloquo è punibile con ammenda. Per legge (art. 724 del codice penale). Se dovesse capitarvi di infrangere la norma, potreste sempre rispondere: “Merde”.