Una nostra analisi dettagliata delle motivazioni della sentenza della Corte di Assise di Palermo sulla cosiddetta ‘trattativa Stato-mafia’, depositate proprio nel giorno del 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio
La Corte d'Assise di Palermo, nei 90 giorni previsti per legge, ha depositato le motivazioni della sentenza sulla ‘trattativa Stato-mafia’, proprio nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio: basterebbe questo passaggio per comprendere l’importanza storica di questo verdetto. Impossibile non sottolineare il ‘contraltare’ alle strumentali delegittimazioni nei confronti del ‘pool’ di Palermo, in particolare verso il pm Nino Di Matteo, ingiustamente accostato al capitolo del ‘depistaggio’ delle prime indagini sulla strage in cui trovò la morte il giudice Paolo Borsellino. Ma certamente più rlevanti sono le pagine della sentenza firmata dal presidente della Corte d'Assise, Alfredo Montalto, dal giudice a latere, Stefania Brambille e dai 6 giudici popolari. “E’ ferma convinzione della Corte”, scrivono i giudici, “che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sottoforma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista, meramente e chiaramente di carattere vendicativo, riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”.
Non ha alcuna remora la Corte d'Assise, soprattutto quando evidenzia il “danno” e il “pericolo” che quella trattativa comportò per le istituzioni, “sia per le materiali conseguenze che ne sono derivate (non solo le stragi, ma anche gli innumerevoli attentati omicidiari che hanno caratterizzato il biennio 1992-1994, tutti collegati, a vario titolo, alla strategia mafiosa che, parallelamente alla minaccia, mirava a ottenere il cedimento dello Stato), sia per la compromissione del funzionamento delle più alte istituzioni preposte alla vita democratica del Paese, fortemente influenzate dall'incombente minaccia mafiosa”. Per spiegare “la gravità dei fatti ricondotti alla fattispecie criminosa, per la quale va riconosciuta la responsabilità penale degli imputati condannati”, i giudici entrano nel dettaglio. Per farlo, focalizzano il fattore temporale e cioè il ‘quando’ si è realizzata questa ‘trattativa Stato-mafia’: “All'indomani di una delle più gravi stragi della Storia della Repubblica, qual è stata quella di Capaci e mentre venivano reiterate non meno gravi stragi (da quella di via D'Amelio, sino a quelle del 1993, senza dimenticare il tentativo dello stadio Olimpico di Roma che, se fosse riuscito, avrebbe verosimilmente messo definitivamente in ginocchio le istituzioni), sia per le complessive modalità dell'azione tipiche del ricatto mafioso, elevato qui, però, all'ennesima potenza”.
E’ il volto di ‘Giano Bifronte’ quello che riaffiora nelle pagine della sentenza. Da una parte, ‘Cosa nostra’, nella persona di Leoluca Bagarella, condannato a 28 anni di reclusione. Su di lui, i giudici scrivono testualmente: “Trattandosi dell'alter ego di Salvatore Riina, col quale ha condiviso tutte le strategie sanguinarie e, specificamente, l'intransigente linea del ricatto allo Stato, senza alcun cedimento sulle condizioni che il medesimo Riina aveva posto, non potendo neppure immaginarsi altra minaccia al Governo più grave di quella che è stata attuata nel caso in esame”. Dall’altro lato, c’è il volto dello Stato, impersonato in primis dagli ex generali dei Carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, condannati entrambi a 12 anni di reclusione. Per Subranni, i giudici parlano del suo “ruolo di primo ideatore dell'istigazione al reato e, per Mori, del ruolo essenziale svolto per l'attuazione della condotta criminosa, nonché della personalità negativa emersa sia, specificamente, nella vicenda Bellini, sia, in generale, per il suo ‘modus operandi’. E’ ferma convinzione della Corte”, si legge inoltre nel dispositivo, “che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi, che ha dato luogo alla minaccia al Governo sottoforma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista, meramente e chiaramente di carattere vendicativo, riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo, nel gennaio 1993”. I giudici ribadiscono, quindi, che “in assenza del precedente segnale di cedimento dello Stato percepito dai mafiosi (percezione determinata unicamente dall'azione dei Carabinieri che dicevano - o facevano credere - di essersi mossi a nome del Governo) non avrebbe trovato terreno fertile la speranza di potere ottenere benefici dall'azione stragista, che sino a quel momento aveva prodotto soltanto l'inasprimento del regime carcerario e, appunto, l'arresto di Salvatore Riina”. Per poi sottolineare fortemente: “Al contrario, è stata proprio la constatazione che le stragi del 1992 avevano smosso qualcosa nell'apparentemente granitica fermezza che, da qualche tempo, grazie all'impulso incessante di Giovanni Falcone, il Governo della Repubblica aveva manifestato e stava attuando, che ha reso possibile ipotizzare che qualche altro ‘colpo’ (cioè qualche altra strage, quali quelle che, poi, furono effettivamente realizzate nel corso del 1993, ndr) avrebbe potuto far crollare la resistenza statuale”.
Siamo dunque innanzi a un terribile dato oggettivo: i morti delle stragi del 1993 potevano essere evitati. Per farsi un’idea di quell’orrore, basti pensare ai quattro componenti della famiglia Nencioni, tra cui due bambine di 8 anni e 50 giorni, rimaste dilaniate nella strage di Firenze assieme al giovane studente Dario Capolicchio: uccisi dalle bombe del ‘dialogo Stato-mafia’. “Ché uccidono più le parole che la spada”. E non si è mai troppo giovani per morirne.
*Giurista d'impresa
NELLA FOTO: IL TRIBUNALE DI PALERMO
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