È possibile un riavvicinamento culturale tra tutte le forze progressiste italiane? Occorrerebbe, probabilmente, ripartire dalla critica del ‘vecchio’ senso comune, formato in larga parte da sistemi di pensiero o da mentalità elaborate nel passato, magari 'liberando' le riflessioni del fondatore del Pci da quell’italo-marxismo ideologico dei Bordiga e dei Togliatti che tanti danni ha creato nella sinistra italiana e non solo in essa. Perché, dopotutto, noi italiani siamo ‘figli’ di Croce, Labriola, Turati e anche di Gramsci.
Rileggendo in questi giorni i ‘Quaderni dal carcere’ di Antonio Gramsci, mi sono accorto di come sia possibile ‘liberare’ la riflessione di questo pensatore sardo dalle diverse ‘contaminazioni leniniste’ insite in alcune sue categorizzazioni, probabilmente dettate dall’esigenza di riallacciarsi politicamente alla Terza internazionale comunista, al fine di ricollocare il suo pensiero nell’alveo di un socialismo umanistico ‘storicista’, questo sì, ma niente affatto ‘materialista’. Un primo passo di riavvicinamento culturale tra tutte le forze progressiste italiane potrebbe infatti avvenire per mezzo di una ridefinizione del Partito democratico in quanto movimento composto da un’anima cristiano-sociale che si è unita a una componente di ‘socialisti gramsciani’, distinguendo in tal modo il riverbero dottrinario del fondatore del Pci da quell’italo-marxismo ideologico dei Bordiga e dei Togliatti che tanti danni ha creato nella sinistra italiana e non solo in essa. Compito di una nuova cultura o di una nuova filosofia progressista dev’essere perciò quello di riuscire a penetrare nel ‘senso comune’ di un popolo, al fine di modificarne gli aspetti più ‘stantìi’. Ma, per ottenere ciò, occorre ripartire dalla critica del ‘vecchio’ senso comune, formato in larga parte da sistemi di pensiero o da mentalità elaborate nel passato. Un’analisi critica del senso comune significa semplicemente stabilire come nel pratico operare degli uomini sia quasi sempre contenuta, implicitamente o esplicitamente, una determinata concezione del mondo. Ciò non significa che i cittadini, in una qualsiasi società, abbiano tutti una ‘funzione intellettuale’, si badi bene. Ma tale distinzione è di genere quantitativo, non qualitativo, poiché nel momento in cui una determinata riforma della mentalità collettiva di una società rimane nella stretta cerchia di un’elite intellettuale, che ‘diamine’ di ‘riforma culturale’ mai sarebbe? Fu su questa base che Gramsci cercò di portare la propria ‘teoria della prassi’ alla ‘resa dei conti’ con il liberalismo di Croce, esattamente su questo versante. Ma per poterlo fare, egli dovette, per forza di cose, sviluppare una critica precisa al marxismo stesso, una sorta di ‘revisione interna’: “I soggetti protagonisti della Storia sono le masse”, scrive a un certo punto Antonio Gramsci. “Agli intellettuali spetta, oggi, il compito di tuffarsi nella vita pratica per divenire organizzatori degli aspetti più sostanziali della cultura”. Insomma, gli intellettuali dovrebbero smetterla di considerarsi una ‘casta’ e decidersi a ‘democratizzarsi’, poiché la loro personalità non può limitarsi all’individuazione di nuove ed originali verità, ma entrare in uno stretto rapporto di interconnessione e di trasformazione dell’ambiente circostante svolgendo una ‘funzione attiva’ - ‘liberale’, direbbe qualcuno - nei confronti della società. Pur se tali presupposti hanno sempre fornito svariate interpretazioni, a me pare assodato si tratti di una ‘sostituzione’ di Marx con Feuerbach, anche se Gramsci stesso si è speso molto nel cercare di ricollegarsi all’ideologia del filosofo di Treviri reinterpretando e riconnettendo proprio quel ‘passaggio’. Tuttavia, in quel punto vi è una ‘recisione’ netta, una vera e propria distinzione rispetto all’ortodossia ‘marxista’. Il passo, nei ‘Quaderni’, è precisamente il seguente: “La dottrina materialistica che vorrebbe le persone come il prodotto e il risultato dell’ambiente e dell’educazione circostante e che, pertanto, spiega i cambiamenti degli uomini da un mutato ambiente o da un altro genere di educazione, dimentica che l’ambiente medesimo viene modificato proprio dagli uomini e che l’educatore deve egli stesso essere educato” (Quaderni, pag. 2356, ndr). Se questo non è socialismo democratico, allora mi si venga esattamente a spiegare di che cosa si tratta. Se tali mie considerazioni dovessero scoprire il ‘fianco’ a stravaganti critiche di pseudo-intellettualismo, deve risultare ben chiaro sin d’ora che sono pronto a disinteressarmene autorevolmente: mantengo infatti tutta l’intenzione di ‘trafugare’ – se così si può dire - il pensiero di Gramsci dal ‘Pantheon’ del marxismo, al fine di considerarlo un interlocutore culturale importante per la riunificazione di tutte le sinistre democratiche italiane, poiché non è più possibile tollerare determinate polemiche, intellettuali e giornalistiche, tese solo a rendere il panorama culturale complessivo una sorta di ‘arena’ per dispute destinate a lasciare il tempo che trovano o che, stupidamente, alimentano il continuo ‘sbattere la testa’ contro il muro dei più stupidi ‘revanchismi’. Strumentalmente - questo certamente sì - intendo invece continuare a riflettere intorno al pensiero di Gramsci come e meglio posso e ritengo. Tale percorso, infatti, è possibile se la si smette di considerare il terreno della dialettica quotidiana come un qualcosa da condizionare attraverso continui ‘scossoni’: è infatti giunta l’ora di concentrarsi, definitivamente e con fiducia, sulla bontà di un percorso programmatico, assolutamente realizzabile nei tempi e nei modi dovuti. La polemica risalente ad alcuni decenni passati e innescata dal Partito della Rifondazione comunista intorno all’adozione di un sistema elettorale maggioritario, per esempio, ha visto il verificarsi di quasi tutti gli ‘spunti critici’ evidenziati allora. Ciò può tornare molto utile, oggi, a far comprendere come il ritorno a un sistema proporzionale non solo non moltiplica i Partiti, ma ne preserva le identità culturali più autentiche contribuendo, per esempio, a ‘risistemare’ il mondo cattolico-democratico sul suo effettivo fronte sociale di appartenenza: quello moderato. Una realistica ristrutturazione del nostro sistema politico potrebbe infatti avvenire soltanto se ricominciamo, tutti quanti, a definire ogni cosa col proprio nome: che i democristiani facciano, dunque, i democristiani; che i laici e i socialisti riprendano a svolgere la propria funzione di ‘minoranza’ efficace e influente; che i ‘gramsciani’ comincino finalmente ad approdare sul terreno del riformismo socialdemocratico. Se vi è una buona ‘fetta’ di elettorato italiano che ritiene l’esperienza del Pci non tutta da ‘cestinare’ - considerazione che ritengo parzialmente condivisibile - non vedo perché esso non possa esprimere le proprie convinzioni, magari evidenziando anche una serie di autoanalisi in grado di far maturare una nuova sinistra di governo (e non solamente in quanto mero movimentismo antagonistico). E se esiste la possibilità per la creazione di un nuovo grande Partito socialdemocratico, che personalmente vorrei fosse in grado anche di darsi delle chiare connotazioni laico-riformiste, in grado di porsi come interlocutore credibile e legittimo di fronte alle forze cattolico-democratiche e moderate, non vedo perché ciò sia da considerare un’ipotesi peregrina, dato che mezzo mondo viene stabilmente governato proprio dalle forze di ispirazione laburista o del socialismo liberale. Si tratta forse di uno ‘scenario’ dalle forti ‘tinte mitterandiane’? Può darsi. Ma sia ben chiaro che si tratta dell’unico sentiero realmente percorribile per non riconsegnare il destino di questo Paese ai suoi ambienti più retrivi e conservatori.