Il nuovo romanzo di Stéphanie Hochet, pubblicato in Italia da Voland, riporta all’attenzione dei lettori il progetto fallimentare del Terzo Reich di resuscitare l’uro: una specie animale estintasi ai tempi del Paleolitico
È risaputo quanto sia difficile e complicata la vita di uno scrittore nella società odierna: vivere del proprio lavoro intellettuale è diventata un'eccezione, piuttosto che la regola. Un terno al lotto o una sfida, tra stenti e sacrifici, per cercare di uscire dall'anonimato e poter avere qualche riconoscimento nel ‘mare magnum’ della letteratura contemporanea. Il romanzo ‘Il testamento dell'uro” di Stéphanie Hochet, pubblicato in Italia da Voland, ci fa conoscere dall'interno questa situazione: la voce narrante è quella di un’autrice che, durante una caldissima estate, viene invitata a partecipare a un festival letterario per parlare dei suoi libri in un paesino nel sud della Francia, con la promessa di un lauto compenso. La Hochet, in una sorta di operazione a cavallo tra autofiction e metaletteratura, senza alcuna pedanteria mette in luce con una notevole dose di ironia una visione disincantata della figura dello scrittore, costretto a confrontarsi nelle presentazioni dei suoi lavori con un pubblico disinteressato e distratto. La leggerezza e la comicità di questa prima parte cede il posto, nel romanzo, a una seconda metà molto più cupa e inquietante, subito dopo l’incontro della scrittrice con il sindaco del paese, Vincent Charnot: un uomo ambizioso e carismatico, intenzionato a produrre una serie di iniziative culturali fuori dall’ordinario. L’autrice, vittima delle capacità di persuasione di Charnot, si ritroverà ad accettare di redigere un testo mitologico di una specie del paleolitico ormai estinta: l’imponente uro, il ‘Bos taurus primigenius’, riportato in vita negli anni trenta dai nazisti tramite l’incrocio di bovini domestici e da combattimento. Il risultato di questo ‘esperimento’ fu il bovino di Heck, così chiamato dal nome dei due fratelli tedeschi che ne seguirono l’intera operazione. Il sindaco Charnot, in collaborazione con una misteriosa ‘Organizzazione’, si proporrà di seguire le orme di questo progetto tutto sommato fallimentare (in quanto il fenotipo ancestrale dell’Uro preistorico rimaneva ancora troppo distante da quello degli incroci), per resuscitare quello che era “il precursore di tutti gli dèi, il re degli animali in un’epoca in cui l’uomo non era la specie dominante del pianeta”. Alla scrittrice, che parla in prima persona, spetterà il compito di inventare una storia leggendaria – ‘Il testamento dell’uro’ - per giustificare il programma del sindaco, poiché “nell’animo umano, gli eventi diventano reali quando sono accompagnati dal linguaggio” e “nulla è più entusiasmante di una leggenda”. Ecco, perciò, che la vicenda si tinge di ‘noir’: la voce narrante scoprirà che il suo non è affatto un soggiorno letterario nel sud della Francia, ma un rapimento a tutti gli effetti, pianificato in tutti i particolari dall’Organizzazione e dal sindaco. Accostata, forse un po’ ingiustamente, al nome di Amélie Nothomb, la Hochet, già conosciuta in Italia per ‘Sangue nero’, ‘Elogio del gatto’ e ‘Un romanzo inglese’, tutti pubblicati da Voland, con ‘Il testamento dell’uro’ ha scritto un romanzo davvero interessante e originale nella sua struttura. Un testo di sicuro impatto, che non mancherà di avvincere anche il lettore più esigente.
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