Una teologia esistenziale fra paradosso e autenticità in un mondo sempre più piatto, che non riconosce l'avventura della Storia come parte integrante della filosofia e dello spirito umano
Sono molteplici le esperienze che possono indurre l'uomo a perdere il senso della propria esistenza. L'esperienza di una vita che promette e poi non mantiene è irrimediabilmente segnata dalla precarietà, dall’instabilità. Eppure, la vita non vuole essere preceduta da nulla, perché non ha bisogno di nulla. La vita è quella che è. Siamo noi, il problema vivente. E senza sapere dove andiamo, ci muoviamo nell’attesa che il 'buon vento' faccia di noi la miglior soluzione esistente. La vita in sé segue un solo tono. Si espleta sotto il segno di una variegata estensione di forme viventi. E il suo dinamismo naturale è visibilmente ciclico e costante. E’ l’uomo a essere incostante, inadattabile innanzi a delle ‘possibilità’ che in lui accadono. La possibilità è il luogo della sua libertà, della sua esistenziale ‘condanna dolceamara’. Tutto ciò non è nient'altro che la sua esistenza, che lo attraversa, lo trafigge e lo conduce al divenire delle sue possibilità. Si tratta di un esistere che non appartiene alla dimensione concettuale, ma è un fatto propriamente singolare. L’esistenza è un fatto singolare: una singolarità che va definendosi in una ricerca inesauribile e irrimediabile di stati di indeterminabiltà.
Scrive il sacerdote e teologo Bruno Maggioni (Rovellasca, 1932): “La vita afferma, da una parte, una netta gerarchia di valori, ma poi, dall'altra, sembra non rispettarla. L'uomo ha sete del definitivo, ma deve poi accontentarsi di ciò che è relativo. Desidera ciò che è aperto e sicuro, ma deve accontentarsi dell'incerto e del provvisorio. Il suo desiderio è aperto, infinito, mentre la realtà dell'esistenza è quella che è, inferiore”. Ecco che la fatica del vivere appare come un affannarsi inconcludente. La salvezza dell'uomo è dunque nelle sue mani. Ma fino a che punto? E dal momento che non viene sottratto alle sue responsabilità, egli deve compiere una scelta: la scelta della sua vita. Scegliere implica l’alternativa, la rinuncia; un'aderenza morale e l’assunzione di una certa condotta. E l’intera responsabilità ricade su di lui. Una grande responsabilità questa, da assumere senza rinvii, perché gli errori o i danni non sono sempre rimediabili. Le alternative possibili, generate dalla scelta, non sempre si conciliano nella continuità di un processo di sintesi dialettica. Dunque, vi è sempre una componente irrazionale che incide enormemente sul rapporto intimo e profondo di chi sceglie. In un mio precedente saggio, intitolato 'L'altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza' (Bibliotheka, 2017), scrivo: "Le scelte sono assunzioni di responsabilità che si manifestano in ogni situazione, anche in quelle che appaiono più lontane dalla nostra portata. […] E la possibilità è la più pesante di tutte le categorie. L’uomo si rende conto di essere un aspetto momentaneo della sua vita e scopre l’assurdità nella propria impresa di progettare sempre nuovi schemi e significati, destinati, in qualche modo, ad essere superati in una corsa senza fine".
La scelta mette a nudo l'uomo, lo lascia in bilico fra l'essere e il nulla. Per Søren Kierkegaard (Copenaghen 1813-1855), filosofo danese, la sua filosofia è essenzialmente ricerca vitale; modalità essenziale che investe direttamente l'esistenza dell’uomo. Infatti, il filosofo mostra, attraverso i suoi scritti, come, innanzi all'uomo, si aprano possibilità di scelta. Ma chi è il singolo? Il singolo, per Kierkegaard, è la categoria essenziale attraverso cui passa il tempo, la Storia e la stessa vita. Il singolo è, oltretutto, l’uomo esposto all'imprevedibilità, alla sua libertà, esposto in ogni istante al rischio della sua scelta. Nulla viene garantito da logiche prestabilite e necessarie. L'uomo è decaduto dall'eden dell'autenticità. Egli è già da tempo nel peccato, macchiato, inquinato e segnato dal peso delle sue responsabilità. E, contrariamente a tutto ciò che si era già precedentemente istituito con Hegel, egli è stato rovesciato: l'uomo non è più un puro accadere irrilevante, ma è “l'accadere” per eccellenza, la prima scelta. "Nasciamo, viviamo moriamo da soli", scrive Osho (Kuchwada, 1931-Pune, 1990). Il destino dell’uomo è nel suo destinarsi a sé stesso, al suo dover e poter essere. È anche vero che la vita dell'uomo non si riduce alla mera dimensione intima e personale. L'esperienza della vita avviene in compagnia, o con forme di accomunamento. Nella vita occorre saper scegliere, bisogna fronteggiare il peso della scelta e delle responsabilità. Socializziamo, condividiamo rapporti di reciprocità, ma, a un certo momento, sentiamo che alla base del rapporti interpersonali vi è solitudine, angoscia e disperazione. E se la solitudine genera la sagoma perfetta della morte, l'angoscia è la vertigine che sperimentiamo innanzi a noi stessi, innanzi all'esistere, innanzi alle conseguenze del nostro puro accadere. Angosciandoci, non siamo in grado di definire nulla in rapporto al mondo e a Dio. Ed è il nulla che (ci) tormenta. Il nulla, a questo punto, è, diventa; diventa l’essere di riguardo a cui prestare attenzione. Ad avviso del filosofo di Copenaghen, ogni uomo, ogni individuo, deve attraversare queste condizioni: l'angoscia e la disperazione. L’angoscia è la spia della libertà dell’uomo. Ed è la medesima libertà che genera il nulla. La libertà non è solamente qualcosa di positivo. Essa ha un volto ingannevole, terribile. E il singolo, in quanto libero, può scegliere il bene o cadere nel male. Scrive Kierkegaard: "L'imparare a sentire l'angoscia è un'avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l'angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta".
L'uomo è la sua libertà, dunque, la sua angoscia, la sua scelta. La scelta è il connotato tipico dell'uomo che vuole essere, vuole realizzarsi. "E le persone, singole – ricorda la pedagogista Kasia Marciszuk (Hrubieszów, 1971) – sono responsabili della qualità della vita, […] di quella vita che vuole nascere, vuole esistere e che non esiste ancora". L'esperienza dell'angoscia, sulla base delle parole del filosofo danese, non è poi così male: sotto il profilo umano rappresenta l'indispensabile crogiolo in cui i nostri modi di essere, i nostri caratteri perdono certe spigolosità o durezze, per acquisire volti concreti e reali. In questa logica, l'angoscia consente di tendere un ponte tra l'io, se stesso e il mondo nell'esperienza delle responsabilità verso i possibili. L'esperienza delle responsabilità verso i possibili è un fatto stra-ordinario di cui l'uomo non può sottrarsi se vuole conservare o tentare il 'salto' nella direzione del senso della sua dignità e della sua umanità. A tal proposito, la studiosa Paola Binetti (Roma, 1943), all'interno di un volume collettivo, riporta queste parole: "Il lungo itinerario dell'uomo che ogni uomo deve percorrere per raggiungere la piena maturità presenta spesso delle tappe caratterizzate da una intensa esperienza di dolore e di sofferenza, che non possono essere evitate. All'iniziale tentativo di fuggire davanti a questi incontri, che suscitano una naturale repulsione, la riflessione personale può far cogliere nuovi significati e far subentrare la consapevolezza di valori più profondi su cui fondare la nostra vita".
La riflessione personale 'può', infatti, favorire e permettere nuovi significati dinanzi alla sofferenza dello spirito. Ma l'obiettivo di Kierkegaard è quello di voler focalizzare l'attenzione sul carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale. La possibilità destabilizza, scombussola, altera, divide, angoscia e dispera. La possibilità genera, alla luce della sua teologia esistenziale, una malattia. Non si tratta di una condizione patologica da cui è importante guarire. E' il male dello spirito. E solamente chi si è ammalato di questo male, proprio mediante la sofferenza e la disperazione, perviene al senso autentico del proprio esistere, del proprio essere in rapporto con se stesso. In altre parole, la malattia, questa, propria dell’uomo finito, dello spirito, dell’io, diventa un passaggio funzionale, la sintesi perfetta di un rapporto personale tra il finito e l’infinito, tra il tempo e l’eterno, tra la possibilità e la necessità. La malattia è, tuttavia, mortale: Kierkegaad lo chiarirà molto bene nel libro del 1848, 'Sygdommen til Døden. En christelig psychologisk Udvikling til Opbyggelse og Opvækkelse' (La malattia mortale, ndr). La malattia è mortale non perché porta all'annientamento dell'io; ma, al contrario, lo perfeziona paradossalmente nella finitezza; rende, ancora, paradossalmente, l'io cosciente della incapacità di sperimentare la sua precarietà, il suo conflitto interiore, la sua morte spirituale; incapace, tutt'al più, di permanere nella “singolarità” dinanzi al possibile di se stesso. Ecco che, incapace di resistere agli spasmi della malattia, l'unica soluzione è aggrapparsi a Dio. Dunque, passare dalla propria disperazione a Dio significa compiere un balzo nell'irrazionale, un passaggio senza mediazioni. Il passaggio compiuto è assurdo, scandaloso, ad avviso di Kierkegaard. L'atto è inaccettabile dalla ragione. Questo è un fatto paradossale nel momento in cui l'io, aggrappandosi a Dio, consegna integralmente se stesso. Il filosofo Cornelio Fabro (Talmassons, 1911 – Roma, 1995), scrive: "L'atto di fede invece implica una rottura una rottura totale con la razionalità dell'immediato ed esige il passaggio ad una sfera ch'è assolutamente incommensurabile con quella dell'uomo naturale, fosse anche il più grande genio. L'atto di fede perciò comporta un 'salto' (Spring) che trasporta l'uomo in una sfera dove i criteri d'un mondo limitato perdono ogni valore, anzi dove questi criteri risultano negati. Infatti l'oggetto della fede, la rivelazione di Dio all'uomo, è per la ragione umana l'assurdo, il paradosso, l'incomprensibile".
La fede, tuttavia, non risolve il problema dell’instabilità radicale dell’esistenza costituita dal possibile. La fede non dice che l’uomo debba essere privato del peso della scelta. L’uomo, resta l’unico ente che deve ad ogni modo scegliere/scegliersi in ragione della sua libertà. Perciò la fede è e resta un soccorso che non soccorre fino in fondo. Eppure, scrive Piero Beraldi:
"Kierkegaard, nel sottolineare la valenza teologica del singolo, afferma che l’uomo è un essere che esiste davanti a Dio, come pensiero finito di fronte alla persona infinita, in un rapporto ascendente di creatura al Creatore, di figlio al Padre che lo libera, attraverso la fede e la grazia per la vita eterna, dall’angoscia e dalla disperazione della finitezza".
Dunque, che cosa ci salva da questa malattia mortale? Dio, la fede. La fede, per quanto sia paradosso e scandalo, rappresenta la salvezza per l’uomo. L’uomo è una creatura: è una creatura dipendente oltreché finita. L’uomo, se non accetta di mettersi in rapporto con l’infinità di Dio, si illude di poter trovare in sé l’infinito, l’assoluto. Solo con l’adesione a Dio il singolo rivela la sua bellezza, la sua pienezza, la sua autenticità. E la salvezza dell’uomo finito ha luogo nella figura di Cristo, secondo Kierkegaard. Egli, infatti, è il salvatore degli uomini, però li raggiunge singolarmente e li salva uno a uno, invitandoli tutti ad andare da lui per ricevere la salvezza. Qui si manifesta il carattere del suo amore; un amore libero e fecondo, che non è generico, ma fattivo. Cristo non forza nessuno, ma rispetta la libertà di ognuno. Dunque, il tormento della disperazione può essere oltrepassato solo dalla fede, cioè dalla preghiera a Dio. Dal momento che il credente si affida a Dio, l’angoscia del possibile viene meno, la sua coscienza si rassicura. Ma la fede libera anche dalla disperazione. Infatti, Dio, al quale tutto è possibile essendo onnipotente, può riscattare l'individuo dai suoi limiti, può aiutarlo a realizzarsi, e così può liberarlo dalla disperazione. Stando a ciò che scrive Kierkegaard, persino nella fede vi è il paradosso. La fede non può assicurare certezza e riposo, perché è assurdità, irrazionale e scandalo. La rivelazione cristiana non ha nulla di razionale o di plausibile dinanzi alla ragione. Per la ragione, infatti, è qualcosa di paradossale e scandaloso la fede in un Uomo che è insieme Dio, in un individuo storico che è nello stesso tempo metastorico. Impensabile razionalmente è anche l'intimo rapporto fra Dio e l'uomo. Infatti, Dio è totalmente trascendente. Ciò implica, di fatto, una distanza infinita fra lui e l'uomo. La fede, nella sua paradossalità, crede nonostante tutto e assume tutti i rischi possibili. Proprio come fece Abramo: egli credette in forza dell'assurdo ed ebbe fede non solo per l’altra vita, ma anche per questa.
MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO
DATA: 1603
TECNICA: OLIO SU TELA
DIMENSIONI: 104,0×135,0 cm
UBICAZIONE: GALLERIA DEGLI UFFICI, FIRENZE
L’autore
Fabio Squeo (Terlizzi, 1987): filosofo, saggista, autore di poesie e racconti. Laureato in filosofia e specializzato in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’, ha pubblicato ‘Quando è la vita a invitare’ (Monetti Editore, 2018); 'L’acqua bruciata' (Montedit Editore, 2018); 'L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza. Heidegger, Sartre, Lacan, Lévinas' (Bibliotheka, 2017); 'I poeti fioriscono al buio' (Bibliotheka, 2017).
"Alla sorgente
il destino
disseta la vita che vede passare,
mentre la violenza degli affossatori
strugge i crateri delle follie.
Attimi iridescenti
tremano alla foce".
(Fabio Squeo)
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