Il mensile di informazione e approfondimento che
intende riunire culturalmente il nostro Paese nel pieno rispetto di tutte le sue tradizioni, vocazioni e ispirazioni ideologiche e politiche.
diretto da Vittorio Lussana
Area Riservata
2 Maggio 2024

La sindrome di Aiace: quando la realtà diventa un peso troppo difficile da accettare

di Giovanna Albi
Condividi
La sindrome di Aiace: quando la realtà diventa un peso troppo difficile da accettare

L’antica tragedia ‘sofoclea’ rappresentata intorno al 445 a. C. incarna il senso tragico del conflitto atroce tra due mondi, quello antico e il moderno: il dramma della solitudine per antonomasia

L’Aiace di Sofocle è la tragedia greca che meglio rappresenta il disagio dei giorni nostri, la difficoltà nell’accettazione del reale, il concetto di rimozione scoperto e teorizzato, in psicanalisi, da Sigmund Freud. E’ una sindrome depressiva di cui soffre intero ‘pezzo’ di popolo italiano, europeo e mondiale. E’ la tragedia che, più di altre, ha segnato l’irreversibile passaggio dalla civiltà ‘omerica’ della vergogna, interpretata dal protagonista, a quella della colpa e della responsabilità, di cui si fa portavoce Odisseo. Divisi da un’abissale distanza fin dai tempi di Omero, i due eroi si distinguono nello stesso senso in cui Achille è lontano da Odisseo, essendo Aiace Telamonio, re di Salamina, l’eroe più vicino ad Achille per forza, coraggio, passionalità, determinazione d’intenti. Precisiamo: Odisseo, per quanto eroe ‘omerico’, ha in sé germi di sorprendente modernità. L’astuzia e l’intelligenza lo rendono eroe flessibile, che si adegua al reale, duttile e capace di cogliere il ‘kàiròs’: la circostanza favorevole. E’ colui che con le sue alte prerogative mentali, più che virtuose, piega a sé la realtà, fino a rendere navigabile (pòntos) il mare infecondo (pèlagos) della vita stessa. Esprime lo spirito di conservazione e l’attaccamento alla tradizioni della famiglia, per la quale rinuncia all’immortalità promessagli da Calypso, ma muore vecchio nella sua casa. Al contrario, Achille, eroe furibondo famoso per la sua ira, che si scatenò dopo il ratto di Briseide che egli amava più della sua sposa, è l’eroe forte di corpo, ma stravagante nell'anima. E’ colui che si ritira nella sua tenda per difendere l’amore e il suo onore: quello delle decisioni forti e definitive; quello che non possiede ‘kairòtes’ (l’adattamento al reale), ma che interpreta la realtà con gesti eclatanti e profondamente eroici. Muore giovane, ucciso da Paride. E la sua morte precoce è segno della particolare originalità dell’eroe che non si preserva, ma difende fino in fondo la sua dimensione passionale. Si racconta che nell’atto di trafiggere Pentesilea, egli se ne innamorò. Un eroe sui generis, folle e bislacco, passionale e fremente. L’eroe più simile ad Achille è, per l’appunto, Aiace, che ne rappresenta la continuazione ideale. Ma andiamo ai fatti narrati nella tragedia omonima: Achille Pelide è morto. Gli Atridi, cioè Agamennone e Menelao, capi dell’esercito greco, consegnano le sue armi a Odisseo, eroe moderno nel senso sopra spiegato. Aiace non ci sta, pensa di aver subito un'atroce ingiustizia: a lui spetterebbero quelle armi in quanto amico di Achille e a lui assai simile. Il dramma si apre con l’ira di Aiace, non dissimile da quella di Achille. Ma si tratta di un’ira autolesionista, indotta dagli stessi dei, che lo puniscono per la sua tracotanza (hubris), inviandogli l’accecamento (ate). La punizione degli dei lo travolge nella sua follia (mòria) ed egli massacra i buoi e i montoni degli Achei, credendo di infierire sui suoi compagni. La dea Atena, che ha reso pazzo Aiace, esorta Odisseo a vendicarsi di lui, ma questi rifiuta, modernamente consapevole che il destino di Aiace potrebbe essere anche il suo, in quanto entrambi mortali e, perciò, fragili. Di qui, il lungo discorso di Odisseo, che interpretando il pensiero sofocleo, profondamente riflette sulla condizione dell’uomo, effimero e "ombra di un sogno" (come ebbe a dire anche Pindaro, ndr). I temi sono quelli che verranno trattati anche nel primo coro dell’Antigone: l’uomo è progredito, ma nulla può contro la morte. E questo deve indurre a un ripensamento circa la potenza dell’uomo e alla sua capacità di accettazione della sacrosanta verità: il dio è misura di tutte le cose, non l’uomo, come sosteneva ProtagoAiace_antico.jpgra. La tragedia di Sofocle ha, infatti, il compito di riportare l’uomo entro i suoi limiti, al fine di evitare che il suo secolo diventi “sciocco e superbo”. Fondamentale è la percezione del tempo, che tutto consuma. E la consapevolezza della fragilità umana: concetti ben introiettati dal moderno Odisseo. Al contrario, Aiace è tutto proiettato nel civiltà della vergogna, di cui interpreta la virtù (aretè) e la nobiltà (klèos): quando si riscuote dalla sua follia, prova un disonore profondo per se stesso, certo che la sua vergogna avrebbe coinvolto la sua sposa (Tecmessa), la famiglia e tutta la sua patria, Salamina. Finge di assecondare i consigli della sua sposa, che lo invita a più miti consigli e si dà la morte nella solitudine, sulla riva del mare. Tutti gli eroi tragici sono soli, ma quella di Aiace è una solitudine radicale, che non scende a compromessi, che non ascolta Tecmessa, né le parole del coro. Egli è, dunque, il simbolo della solitudine disperata di chi non si adatta alla rivoluzione epocale che attraversò la Grecia nel V secolo a C. Un eroe omerico che difende strenuamente questo mondo, certo che solo la morte può restituirgli quell’onore (klèos) che l’ingiustizia della Storia gli ha sottratto. A fare brutta figura sono sempre gli Atridi, come nell’Iliade: gente dispotica, figlia di una catena famigliare infame, che non vogliono concedere nemmeno la sepoltura all’eroe Aiace, benché alla fine prevalga il punto di vista mediatore di Odisseo. E sepoltura fu. Siamo di fronte a una tragedia che mette in scena i sentimenti umani, i moti dell’animo umano, fino alla spiegazione del dolore psicologico sotteso alle tragiche scelte. Il conflitto più marcato è quello tra l’ideale dell’eroe e l’impossibilità a portarlo a compimento, stante la fragilità dell’uomo, il cambiamento dei tempi, la necessità divina (anànche), che schiaccia l’uomo e lo rigetta nella sua finitezza. La morte di Aiace è l’estrema ratio di chi non ci sta a sottostare alle leggi del reale: non accetta il mondo in cui vive, si sente l’erede di Achille e l’interprete dell’eroismo epico, ormai fuori moda. E la sua solitudine è quella a cui è votato chiunque non riconosca il “principio di realtà”, per dirla con il viennese Sigmind Freud.
L_Aiace_a_Teatro.jpg



Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
EDITORE: Compact edizioni divisione di Phoenix associazione culturale