La crisi dell’illusione ‘berlusconiana’ corrisponderà alla fine della seconda Repubblica, ovvero al capolinea di una suggestione ‘aziendalista’ che avrebbe dovuto portare il singolo individuo a diventare il vero protagonista della Storia. Questo poteva essere il ‘fulcro’ di un’autentica rivoluzione liberale della società italiana, ma ciò non è affatto avvenuto. E anche se Silvio Berlusconi dovesse passare alla Storia come il solo personaggio politico che è riuscito a governare questo Paese per due intere legislature – un merito che comunque sono assolutamente disposto a riconoscergli – ciò non lo differenzierà più di tanto, nei termini delle realizzazioni concrete, dai vari cicli politici che si sono susseguiti nel vecchio sistema di potere della Democrazia Cristiana, da quello ‘degasperiano’ a quello ‘doroteo’, da quello ‘andreottiano’ a quello ‘moroteo’. Ciò che serviva veramente all’Italia era una nuova cultura della democrazia, un nuovo sistema di valori in cui riconoscerci tutti, a prescindere dai nostri personali presupposti di appartenenza. Questa doveva essere la seconda Repubblica: un nuovo modo di intendere la democrazia sganciata da vetuste ‘appartenenze separate’. Ebbene, ciò è precisamente quanto non è successo, in questi ultimi 17 anni, né in termini culturali, né in quelli più strettamente collegati a una nuova concezione di imprenditorialità, schiettamente ‘dirigista’ o puramente ‘aziendalista’ che fosse. Siamo di nuovo ‘da capo a 12’, come si suol dire, poiché per l’ennesima volta è stata sottovalutata l’esigenza di un progresso soprattutto culturale di questo Paese. L’Italia rimane il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa. Ma la Storia non è altro che il succedersi delle varie generazioni, ciascuna delle quali sfrutta le condizioni tecniche che le sono state trasmesse da quelle che l’hanno preceduta. Quindi, se da un lato ogni generazione prosegue, in circostanze del tutto mutate, l’attività che ha ereditato, dall’altro modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto nuova, mutata e ‘mutuata’ rispetto alla precedente. Questo è un processo che, sul terreno speculativo, può distorcere a tal punto la realtà da mostrare la Storia successiva come ‘scopo reale’ della Storia precedente. Ma la ciclicità della Storia non è affatto questa, come già dimostrato a suo tempo da Gian Battista Vico. La Storia ha una propria circolarità che, ciclicamente, propone e ripropone situazioni già vissute in circostanze assolutamente nuove, mescolando il passato col presente. Ed ecco perché diventerà necessario riagganciarsi a un concetto di democrazia basato su una nuova cultura della laicità. La laicità, infatti, non è uno spiritualismo astratto, radicalmente trascendente, totalmente slegato rispetto alle radici materiali del singolo individuo. La sua superiorità culturale, sia rispetto al marxismo, sia nei confronti dello spiritualismo hegeliano, può generare una nuova filosofia che non stia immobile, ferma come uno ‘schema’ a cui ricorrere in quanto ‘zattera ideologica’, bensì trasformarsi a seconda delle trasformazioni esterne. La concezione della Storia di Karl Marx non era nient’altro che uno storicismo che finiva coll’inquadrare la Storia stessa come un percorso sostanzialmente ‘crescente’ di emancipazione del proletariato. Ma ciò non può essere considerata una circostanza fissa, un ‘sistema univoco’ ed esclusivo di interpretazione della realtà, poiché esso rappresenta la Storia stessa come un personaggio tra gli altri personaggi, come un aspetto tra gli altri aspetti, come una circostanza allineata alle altre circostanze. In quest’ottica, si potrebbe persino arrivare a considerare la scoperta dell’America come il vero ‘dato originario’ della rivoluzione francese, secondo un’accezione di linearità assoluta. Ma il marxismo è solamente un ‘tipo’ di rappresentazione della Storia, una ‘forma’ che non corrisponde affatto a quella scientifica, poiché tende a sottovalutare moltissime condizioni culturali, sociali e materiali ‘altre’. Viceversa, la concezione di Hegel implica uno spirito falsamente totalizzante, talmente astratto da finire con l’imporre, nella Storia empirica ed essoterica, una concezione ‘esoterica’. La Storia dell’umanità è senz’altro la Storia dello ‘spirito’ dell’umanità. Ma le premesse dalle quali un laico deve muovere non possono essere arbitrarie, non sono dogmi, bensì presupposti reali, dai quali esso si può astrarre solo nella sua immaginazione. Un laico è un individuo reale. Le sue azioni e le sue condizioni di vita, tanto quelle che egli ha trovato in essere, quanto quelle prodotte dalla sua stessa azione, sono di natura empirica e non sempre si sovrappongono perfettamente con la concezione etica e morale che lo ha preceduto. Questa è la vera distinzione che opera la laicità in quanto filosofia reale, il suo ‘nesso’ di fondo: la produzione ideale, cioè quella delle innovazioni e delle idee, è una rappresentazione della coscienza direttamente intrecciata con l’attività materiale. Essa è un ‘linguaggio’ posto in funzione diretta con la vita reale, la quale dev’essere conosciuta e analizzata nel dettaglio, lasciando pochissimo al caso. Non è la coscienza a determinare la vita, bensì è la vita a determinare la coscienza, in una sorta di equazione matematica che condiziona e influenza, anche in termini strettamente inerziali, sia i mutamenti degli ambienti esterni, sia l’elaborazione esperienziale dell’Io. Questo è stato il vero errore di fondo del ‘berlusconismo’, se non di tutta la seconda Repubblica: se non si parte dalle condizioni materiali esistenti, da un’analisi precisa delle circostanze, non si possono nemmeno conoscere le conseguenze concrete che possono derivare da un ‘atto’ qualsiasi, da una qualunque decisione. C’è chi dice che una concezione del genere non contempli il ‘fascino magico’ dell’illusione, nessuna forma di suggestione o di ‘sogno’, dunque nemmeno la speranza stessa nel futuro di questo Paese. In un certo senso è così. Ma non si tratta affatto di un pessimismo ‘cosmico’, bensì di un ‘rassegnato disincanto’ di diretta discendenza ‘leopardiana’, di uno scetticismo che non si identifica affatto col cinismo opportunistico. I diritti e le libertà del singolo individuo rimangono l’elemento ‘liberale’ di partenza, ma la ‘magia’ della laicità, ripeto e confermo, non corrisponde a una concezione ‘esoterica’, a uno spiritualismo meramente ‘evocativo’ tendente alla materializzazione di vecchi fantasmi, bensì a una ‘sfida’ verso il nuovo, verso il non costruito, direttamente riferita a quel che c’è ancora da fare o che veramente si può fare, anche con l’aiuto e la solidarietà degli altri uomini e della società civile. Questo è l’uomo laico: colui che dirà “sì”, quando ci sarà da dire “sì”, che dirà “no” quando si dovrà dire “no”. La ‘magia’ sarà quella che risulterà alla fine di un simile processo di rielaborazione interiore. Esso dovrà essere molto più reale e duraturo, può e deve diventare il significato stesso di una democrazia matura, in grado di rigenerarsi e si rinnovarsi ciclicamente. La ‘magia’ è, infatti, la filosofia stessa, una nuova sovrastruttura culturale di un Paese spiritualmente rigenerato e rinnovato. Ecco, perciò, il luogo in cui si cela il vero progressismo laico: nella filosofia - e non nella fantasia - che va al potere. Il laico non è un uomo ‘vuoto’, né un mero strumento della filosofia, bensì ne dovrà essere il principale artefice in quanto singolo individuo dotato di una dignità intrinseca, riconosciuta tra i diritti basilari di tutti gli esseri umani. Un uomo che saprà persino godere del silenzio, consapevole del fatto che “un bel tacer non fu mai scritto”, in cui la concretezza potrà e dovrà trovare un nuovo rapporto di sintesi sincretica tra ‘atto’ e ‘fatto’, tra gli aspetti meditativi e quelli relativi a ogni sua azione. Questo è il vero spiritualismo laico: una filosofia che non ha niente a che vedere con una mostruosa forma di fede o di ideologia collegata a una speranza che non tiene mai conto del principio di solidarietà e di carità tra gli esseri umani.