Sono ormai lontani i tempi in cui Sergio Leone girava i suoi ‘spaghetti-western’ nell’agro romano, così come sembrano definitivamente tramontati quelli in cui Luchino Visconti, per il suo ‘Gattopardo’, poteva avvalersi della grande professionalità di Burt Lancaster e Alain Delon, mentre Bertolucci realizzava ‘Novecento’ mettendo insieme Robert De Niro e Gerard Depardieu
La 71esima mostra del cinema di Venezia, tenutasi nei giorni scorsi nella meravigliosa città lagunare, offre l’occasione per tornare a riflettere su quella che è stata una delle nostre principali industrie del passato. Nonostante il recente successo de ‘La grande bellezza’, la situazione complessiva del cinema italiano rimane assai critica, se non preoccupante. Le nostre pellicole raramente varcano le frontiere, se non quando vengono ‘trainate’ da un premio internazionale. Eppure, che la ripresa economica potrebbe passare anche e soprattutto dal comparto artistico-culturale, compreso quello cinematografico, lo abbiamo scritto molte volte. E non ci stancheremo mai di ripeterlo. Tutti i nostri migliori autori, da Giuseppe Tornatore a Gabriele Muccino, da Saverio Costanzo allo stesso Paolo Sorrentino, stanno ormai producendo i loro film all’estero. Il motivo di ciò è assai semplice: qui non ci sono soldi. E non esiste più un vero mercato delle società di produzione, un settore letteralmente soffocato dal duopolio ‘Medusa-Rai cinema’. Sono ormai lontani i tempi in cui Sergio Leone girava i suoi ‘spaghetti-western’ nell’agro romano, tra Torricola e Pomezia. Così come sembrano definitivamente tramontati quelli in cui Luchino Visconti, per il suo ‘Gattopardo’, poteva avvalersi della grande professionalità di Burt Lancaster e Alain Delon, mentre Bertolucci realizzava ‘Novecento’ mettendo insieme Robert De Niro e Gerard Depardieu. Ripercorrendo a ritroso la storia del cinema italiano appare evidente come esso abbia svolto una funzione di splendido ‘biglietto da visita’ del nostro Paese. Anzi, sino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso esso rappresentava, per produzione e ricavi, la nostra terza industria nazionale, seconda nel mondo solamente a Hollywood. Cosa è successo? Per quale motivo, da un certo punto in poi, la nostra produzione filmica ha imboccato la strada di un inesorabile declino? Noi riteniamo, non da oggi, che un simile peggioramento, di qualità e di pubblico, abbia coinciso pienamente con il rinnovamento del sistema televisivo italiano, ovvero con l’apertura del mercato delle frequenze locali ai privati, secondo uno spirito meramente commerciale della produzione tv. La televisione ha cioè preso il posto del cinema nell’immaginario collettivo. E lo spazio lasciato libero dai nostri migliori produttori cinematografici, costretti a trasferirsi in Francia o negli Stati Uniti, è stato presto occupato da molti ‘dilettanti allo sbaraglio’. In una simile deriva di ‘inculturazione’, di lenta ma inesorabile e progressiva degenerazione artistica, la qualità estetica ‘media’ della maggior parte dei film italiani ha finito col crollare verticalmente. Ancora all’inizio degli anni ’80, la nostra industria cinematografica era uno dei ‘fiori all’occhiello’ della rinascita italiana, poiché era riuscita a squarciare molti ‘veli’ che offuscavano la verità di un popolo storicamente avvezzo alla dissimulazione, all’ipocrisia, all’opportunismo qualunquista e cialtrone. Il cinema italiano è stato uno dei ‘volani’ della nostra crescita economica negli anni del ‘boom’. Tant’è che esso fu teatro di una vera e propria ‘guerra’ tra moderatismo cattolico e cultura progressista.
LA GUERRA DEL CINEMA
Proprio sul cinema, infatti, molti sacerdoti preposti agli oratori parrocchiali avevano confidato sin dai primi anni ’50 del secolo scorso per “la diffusione della presenza cristiana nella società”. In particolar modo in Veneto e in Lombardia, il ‘grande schermo’ è stato il più comune alleato del campetto di calcio. Tuttavia, un conto era possedere una buona rete di distribuzione e grandi mezzi di proiezione, ben altro disporre in quantità sufficienti le pellicole da proiettare. E ciò perché le perentorie indicazioni del Centro cattolico cinematografico, noto organismo di censura di quegli anni caratterizzato da un’ottusità mentale e da un’impreparazione artistica rimaste tristemente celebri persino nel ricordo di molti cattolici, non risparmiavano alcun genere di film. La censura cattolica giunse al punto di redigere un vero e proprio ‘decalogo’ di orientamento pedagogico-morale della produzione cinematografica italiana. Essa considerava ‘pericolose’ tutte quelle opere che: a) contenevano o giustificavano, anche implicitamente, errori dogmatici e colpe morali come il divorzio, il duello, il suicidio, la maternità illegittima; b) mettevano in cattiva luce persone, istituzioni e cerimonie sacre e religiose; c) accreditavano princìpi antisociali o dannosi alla convivenza civile; d) contenevano scene immorali o gravemente provocanti, come scene di seduzione prolungate e suggestive, oppure nudità complete o quasi, anche se presentate in siluetta; e) proponevano danze che eccitavano passioni o mettevano in rilievo forme o movimenti indecenti. Lo sguardo dei giovani venne così completamente ‘scotomizzato’ con la successiva preclusione di: a) scene capaci di eccitare i sensi, come baci e abbracci prolungati; b) scene, riviste e balli in abiti succinti, come quelle girate in locali notturni; c) scene di svenimento; d) motti salaci; e) drammi, gialli e polizieschi in cui il delitto era messo in luce favorevolmente, oppure in cui si insegnava, indirettamente, l’arte del delitto (furti, rapine e assassinii) per cui la pellicola riusciva in quanto scuola di delinquenza; f) scene brutali e violente atte a educare allo spirito di violenza. In pratica, nelle sale parrocchiali risultò obiettivamente difficile proporre una programmazione solo ed esclusivamente ‘per tutti’ o ‘per tutti con riserva’. E si finì col dover ammettere anche dei film classificati come ‘per adulti’, subordinandoli ai ‘nulla osta’ della Commissione diocesana poiché, diversamente, la programmazione e la stessa rotazione delle pellicole non avrebbe potuto essere soddisfatta dalla sola “produzione ammessa come lecita”. Proprio quest’ultimo punto della cinematografia “ammessa come lecita” divenne il vero nervo scoperto della ‘presenza cristiana nella società’. Finanziariamente solide com’erano, nonché benvolute dal potere politico - soprattutto quando Giulio Andreotti si insediò alla presidenza dell’Ufficio centrale per la cinematografia, direttamente dipendente dalla presidenza del Consiglio dei ministri - le società di produzione cinematografica cattoliche dimostrarono di non possedere né il respiro culturale, né le capacità professionali necessarie a confezionare prodotti quanto meno dignitosi sotto il profilo artistico. E furono costrette ad assoldare veterani della macchina da presa o giovani registi emergenti, i quali offrirono le proprie competenze tecniche senza, peraltro, vendere l’anima. Con la ‘Orbis’, per esempio, collaborò lungamente lo stesso Cesare Zavattini, il padre del neorealismo italiano, insieme a Pietro Germi, Alessandro Blasetti e allo stesso Vittorio De Sica. Tuttavia, la ricerca di una sintesi tra intransigenza ecclesiastica e produzione religiosamente orientata ma pur sempre verosimile, finì col generare risultati grotteschi, come per esempio capitò per il toccante ‘Fabiola’, tratto dall’omonimo romanzo del cardinale britannico Nicholas Patrick Wiseman, che venne ammesso alla visione solamente ‘per adulti’ poiché vi comparivano “nudità difficilmente eliminabili dall’ambientazione di una vicenda della Roma dei primi martiri cristiani”. Questi e numerosi altri ‘corto circuiti’ finirono col confermare l’impressione che la tanto ricercata ‘presenza cristiana nella società’ sia sempre stata tanto forte sul piano degli apparati difensivi quanto debole su quello delle attitudini creative, artistiche e propositive. E che, sotto la superficie di un’apparente uniformità del mondo cattolico, covassero sordi conflitti tra una gerarchia quasi esclusivamente preoccupata della vigilanza, dell’occultamento e della condanna e ‘schegge di laicità’ desiderose di svolgere un’attività in nome dell’elaborazione di nuovi linguaggi comunicativi. Ne è riprova ciò che accadde dopo che l’apposita commissione ministeriale negò il nulla osta per la circolazione nelle sale cinematografiche al film ‘Gioventù perduta’ di Pietro Germi: per tutta risposta, 35 registi inviarono una lettera sdegnata di protesta al sottosegretario Andreotti, notoriamente vicino ai prelati della Curia. In calce a quel testo e alle denunce che esso conteneva (“ogni giorno che passa è un nuovo fatto, una nuova minaccia, un taglio al montaggio, un’osservazione sulla sceneggiatura, una modifica, un suggerimento, un sorvolamento, una telefonata…”) non facero mostra di sé solo i nomi di Vittorio De Sica, Alberto Lattuada, Roberto Rossellini, Luigi Zampa, Luchino Visconti, Luigi Comencini, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ma anche le firme di Alessandro Blasetti, del liberal-cattolico Mario Soldati (che aveva diretto per la ‘Orbis’ il cortometraggio: ‘Chi è Dio’?) e addirittura di Romolo Marcellini, il regista del leggendario ‘Pastor Angelicus’. Andreotti, tuttavia, continuò imperterrito la sua politica di ‘punzecchiature’ alla nostra produzione cinematografica interna, di indulgenza verso gli esercenti che non applicavano le norme sulla proiezione obbligatoria di film italiani, di ricorso a tutte le possibili ‘serrature’ censorie tese a tutelare, presso l’opinione pubblica internazionale, l’immagine di un Paese deturpato dalle calunnie degli intellettuali di sinistra. Giulio Andreotti spinse il proprio cinismo sino alla pretesa di spiegare lui come dovesse essere svolto il mestiere di registi e produttori, facendo pubblicare sulla rivista settimanale della Dc, ‘Libertas’, una sorta di breviario deontologico in forma di lettera aperta indirizzata a Vittorio De Sica, reo di disfattismo per aver denigrato l’Italia con la pellicola ‘Umberto D.’. Quella pagina segnò uno dei momenti più bassi di una cultura cattolica che si è sempre rifiutata, ostinatamente, di voler indagare le movenze di fondo della nostra società: “Se è vero che il male”, scrisse Andreotti, “si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di ‘Umberto D.’ è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. E’ stato detto che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con un limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni senza le quali ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione”. In pratica, Andreotti affermò di avere la verità ‘in tasca’ in riferimento alla sua pretesa di ‘oggettività’ e avocava a se stesso l’incarico di insegnare a De Sica come dovesse indirizzare la propria professione: una superbia assurda, lontana intere galassie da ogni sano principio di libertà individuale, artistica e culturale. I sottosegretari succedutisi al pupillo di De Gasperi non si discostarono mai dalle linee maestre di un simile ‘testamento spirituale’. Così come non se ne discostò la commissione di censura istituita successivamente presso il ministero del Turismo e dello Spettacolo. A volerla ripercorrere, la storia delle mutilazioni, dei ritocchi e delle protesi cui sono stati sottoposti soggetti e sceneggiature, ne viene fuori un’aneddotica sinistramente esilarante: Aldo Vergano fu costretto a espungere da ‘Il sole sorge ancora’ la sequenza di un personaggio che sfuggiva a una retata nazista ‘sgattaiolando’ da un bordello travestito da prete; ‘La passeggiata’ di Renato Rascel, rifacimento di una novella di Gogol che si conclude con un suicidio, venne corretto con un finale edificante, in cui il protagonista restituisce fiducia alla prostituta di cui si è innamorato attraverso un ‘pallosissimo’ predicozzo; da ‘Suor Letizia’ di Mario Camerini venne amputata la scena in cui una monaca perdeva il ‘velo’ e un bambino con il quale essa stava giocando si stupiva di trovarsi di fronte a una donna. Ma l’aspetto più grave di tali vicende ha riguardato le tante idee cadute in abbandono, i numerosi progetti rinchiusi per sempre in un cassetto, le molte opere mai realizzate per una censura imposta, per lungo tempo, a dei registi sommersi da innumerevoli intimidazioni ‘virtuiste’ e da produttori spaventati dalla prospettiva del disastro commerciale. Allo stadio di abbozzo incompiuto, fra gli innumerevoli altri, rimasero ‘Gli uomini del fiume’ di Carlo Lizzani e Felice Chilanti, un film che raccontava drammaticamente l’alluvione del 1951 in Polesine; ‘Noi che facciamo nascere il grano’ di Giuseppe De Santis e Corrado Alvaro, che trattava delle condizioni di vita dei contadini nei latifondi della Calabria; ‘Minatori’ di Massimo Mida e Carlo Cassola, che intendeva narrare le durissime giornate dei cavatori del grossetano; ‘Il prete bello’ di Luigi Zampa, tutto imperniato sul sottoproletariato ‘picaresco’ di una piccola città veneta. Che la capacità dei cattolici di far presa sull’immaginario sociale attraverso il cinema sia sempre dipesa dai crivelli dei loro poteri di veto è dimostrato dal fatto che la produzione ammessa come lecita fu spesso scavalcata da spettacoli popolari solo esteriormente in regola con i precetti della religione. Ad attirare, nel dopoguerra, un oceanico afflusso di pubblico furono i film di Raffaello Matarazzo - in particolare la trilogia composta da ‘Catene’, ‘Tormento’ e ‘Figli di nessuno’ - che in non pochi finali emanavano ‘odor di sagrestia’ e che, tuttavia, possedevano una struttura assai stratificata, in cui la preponderanza della musica e lo stile della recitazione richiamavano il melodramma ottocentesco, la frequenza degli intrighi, dei colpi di scena e delle agnizioni era ricalcata sul romanzo d’appendice e i cui temi di fondo erano quelli di amore e morte, violenza e sangue, uniti a paure per colpe ancestrali, peccati originali, aborti, violenze subite, incesti e traumi incancellabili. Le opere di Matarazzo fotografavano un mondo temporalmente immobile, scosso da pulsioni antropologiche più che sociali, nonché umettato da un’irrazionalità folcloristica largamente diffusa ancora oggi. Al contrario, il cinema neorealista riuscì invece a presentarsi innanzi al mondo come il tramite più robusto - e senza dubbio più accorato - della rivalutazione di un’Italia arcaica e popolana che il governo delle camicie nere aveva cercato di dissimulare, piuttosto che soccorrere. Anche se i grandi maestri, da Roberto Rossellini a Luchino Visconti, si sono spesso rifatti a poetiche diametralmente diverse, tutti i loro film del ‘periodo d’oro’ del neorealismo furono accomunati dalla scoperta della gente di buon cuore che abitava le campagne e le periferie e che, negli anni della Resistenza e poi del dopoguerra, aveva saputo dar fondo a riserve di rettitudine sconosciute ai beneficiari dell’opulenza illusoria distribuita dal fascismo e ostentata nelle commedie di Mario Camerini. A prendere la parola sullo schermo furono chiamati i dolcissimi parroci di borgata (‘Roma città aperta’); i pescatori di una palude polesana raggiunta dalla guerra prima che dal progresso (‘Paisà’); i ragazzini sottoproletari candidi e ingegnosi (‘Sciuscià’ e ‘Ladri di biciclette’); le maschere dolenti di una Sicilia petrosa e senza storia (‘La terra trema’); i pensionati e le servette ‘murati’ nello squallore delle loro camere in affitto (‘Umberto D’.). Un’umanità integra e generosa, insomma, che doveva essere sottratta al male del ‘moderno d’importazione’, dopo che era stata guarita dall’ingannevole promessa dei telefoni bianchi, dei grandi magazzini e delle ‘mille lire al mese’.
LA COMMEDIA ALL’ITALIANA E IL CINEMA D’IMPEGNO
Il cinema italiano stava dunque riuscendo a rappresentare uno specchio assai fedele dei cambiamenti che stavano avvenendo e che sono avvenuti nel nostro Paese. La ‘commedia all’italiana’, per esempio, ha donato al pubblico spunti satirici e verità ‘squarcianti’, che hanno letteralmente illuminato le ordinarie vergogne della nostra cieca corsa verso un benessere grettamente materialista. ‘Divorzio all’italiana’ di Pietro Germi, tramite una ‘scettica eleganza’, ha saputo scherzare sull’assurdità di un codice penale che non puniva i ‘delitti d’onore’ del ‘maschio italico’, mentre ‘Una vita difficile’ di Dino Risi ha affrontato di petto il dramma di quegli italiani che hanno creduto negli ideali della Resistenza e che si sono visti travolti dalla iattanza cafona di tanti ‘neo-ricchi’. Sempre Dino Risi, ne ‘Il sorpasso’, ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto ‘a singulti’, la ‘giornata tipo’ di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole delle nuove modalità di vita imposte da una modernità vacua, canagliesca e, alla fin fine, amarissima. Ma anche in questo settore, le leggi del successo e della commercializzazione riuscirono ben presto a imporre la superficialità e l’involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno infatti preteso di ‘intonacare’ la nostra ‘Storia–Patria’ diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie: ‘La grande guerra’ di Mario Monicelli e ‘Tutti a casa’ di Luigi Comencini hanno presentato figure di italiani i cui tratti più indolenti sono addebitati esclusivamente alla nostra tradizionale ‘arte di arrangiarsi’, mentre la satira ha spesso degenerato nel ‘macchiettismo’ e nella bonaria presa in giro - ci stiamo riferendo, in particolare, al film ‘Il vigile’ di Luigi Zampa - di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno si accorse che certe nostre ‘istituzioni’ non tenevano più: con tocco assai delicato, il grande Luchino Visconti, in ‘Rocco e i suoi fratelli’, ha saputo fotografare una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali finisce col venir letteralmente ‘bruciata’ dai labirinti della grande città, mentre il geniale e fantasioso Federico Fellini, ne ‘La dolce vita’, è stato uno dei pochi a raccontarci una Roma stordita e corrotta, in cui ogni compostezza sprofonda in un paganesimo provinciale che celebra i suoi riti goderecci senza nemmeno saper attingere a una ‘grandiosa malvagità’. Poi giunse l’epoca del cinema ‘di denuncia civile’, dalla chiara impronta politica. Su tale versante, a dir poco ‘accecanti’ si sono rivelati i film di Francesco Rosi (‘Le mani sulla città’ e ‘Il caso Mattei’), addirittura ‘radiografici’ quelli di Elio Petri (‘A ciascuno il suo’, ‘La classe operaia va in Paradiso’), dolorosamente poetici quelli di Pier Paolo Pasolini (‘Uccellacci e uccellini’ e ‘Mamma Roma’), mentre a rammentarci che l’istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio la famiglia ci hanno pensato Marco Bellocchio (‘I pugni in tasca’), il ‘crudo’ Salvatore Samperi (‘Grazie zia’) e il quasi ‘onirico’ Marco Ferreri (‘Dillinger è morto’), i quali hanno appuntato i propri ‘strali’ contro le atrocità del matrimonio, le ipocrisie del ‘familismo’ all’italiana e gli egoismi dei moderni rapporti di coppia.
QUESTIONI DI OGGI
Come abbiamo visto, alcune tendenze al ‘macchiettismo’ e alla superficialità hanno sempre fatto capolino nella nostra industria cinematografica nazionale. Sino a prendere decisamente il sopravvento, proponendo al pubblico lavori sempre più di evasione e sempre meno di analisi o riflessione. Un riflusso che dura ormai da più di 30 anni e che viene giustificato con alcuni risultati puramente momentanei, come per esempio il successo del primissimo lavoro di Aldo, Giovanni e Giacomo, ‘Tre uomini e una gamba’, o quelli più recenti del caricaturista Checco Zalone. Ma si tratta di entusiasmi sopra le righe, assai stravaganti se si prendono in considerazione le condizioni reali del cinema italiano, un settore che sta gettando sul lastrico moltissimi lavoratori dello spettacolo nella più totale assenza di ogni politica culturale. I film di Checco Zalone ottengono successo presso il pubblico poiché favoriti da una distribuzione generosa e massiccia, enormemente avvantaggiata rispetto ad altri lungometraggi ben più significativi sotto il profilo artistico e culturale. Siamo ancora impaludati tra i limiti di quella concezione sintetizzata dalla frase: “Con la cultura non si mangia”. Un vero e proprio diktat che sta appiattendo sempre più verso il basso la mentalità già di per sé piccolo borghese degli italiani. Ma si tratta di un’imposizione subliminale solo apparentemente assoluta, poiché derivante da un mercato caduto già da tempo tra le mani del più forte. Una condizione di monopolio che riesce a mantenere una posizione privilegiata proprio a causa dei difetti di un sistema-Paese che ha sempre sottovalutato, per pura distanza ideologica, ogni cultura di libera iniziativa e di sana concorrenza perfetta, lasciandosi fagocitare dalle bieche logiche del marketing commerciale esclusivamente basate sulla catena produzione-distribuzione-esercizio-massmedia. Un sistema che premia chi ha più potere, o che si ritrova in una posizione dominante all’interno di un mercato che libero non lo è più. La potenza distributiva di Medusa, per esempio, tende sostanzialmente a privilegiare prodotti di basso consumo e di scadente qualità artistica per meri scopi di profitto, quasi mai riequilibrati da esigenze di conoscenza artistica o di sollecitazione dello spirito critico dei cittadini, considerati come semplici utenti/consumatori. I buoni incassi di alcuni ‘filmetti’ di ‘bassa cucina’, oltre a santificare attori e personaggi che non vanno al di là di alcune indubbie capacità da ‘cabaret’, non servono a risollevare una situazione finanziaria a dir poco disastrosa, ma finiscono unicamente con l’arricchire l’unico produttore e distributore rimasto sul mercato. Tutto ciò rende il cinema italiano un’industria le cui sorti risultano ormai legate, ‘mani e piedi’, al successo commerciale di qualche ‘commediola’ di provincia. Un cinema costretto a ripudiare non solamente le proprie discendenze più nobili, ma persino quelle più leggere e di costume.