Tornare a riflettere sul fenomeno del terrorismo eversivo di estrema sinistra a 33 anni dal rapimento e dall’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana, onorevole Aldo Moro, significa innanzitutto cercare di comprendere un fenomeno i cui riscontri di carattere sociologico hanno sempre rappresentato soltanto uno squallido alibi giustificatorio, poiché inquadrare un certo ‘comunismo militarizzato’ come la forte volontà di alcune avanguardie rivoluzionarie di battersi contro le ingiustizie del sistema capitalistico ha solamente creato attorno a questi gruppi eversivi una sorta di ‘alone’ culturale che, in realtà, non ha mai retto il confronto non solo con ogni forma minima di credibilità politica, ma nemmeno con le più semplici logiche dell’antropologia comportamentale. L’estrazione sociale dei componenti di questi gruppuscoli è, quasi sempre, il ceto borghese o degli ambienti studenteschi caratterizzati da una forte impronta cattolico-comunista: in sintesi, non si tratta affatto di operai o di giovani lavoratori in rivolta contro lo Stato secondo la nota formula ’gramsciana’ della rivoluzione, bensì di miserabili avventurieri che coltivano il sentimento della vendetta, della violenza e della sopraffazione come esclusivo strumento di lotta. Altrettanto poco persuasive son sempre state quelle letture di matrice ideologica che hanno spesso cercato di ‘disegnare’ questi sovversivi come dei giovani delusi che non riescono a intravedere metodi diversi dalla guerriglia urbana, in una società in cui il ricambio politico e l’alternanza democratica apparivano - e appaiono ancora oggi - obiettivi assai poco ‘digeriti’, sia dallo Stato-governo, sia dallo Stato-comunità. Ma se così fosse, non sorprenderebbe il fatto che formazioni politiche bene organizzate e assai ramificate all’interno del mondo del lavoro – i Partiti della sinistra storica e i sindacati – non sempre siano riusciti a cogliere i diversi cicli di riapparizione del fenomeno al fine di neutralizzarne la sotterranea continuità di ‘reclutamento’. L’unica reale spiegazione di tali suggestioni rimane quella antropologica: alcune persone smarriscono la memoria verso ogni coordinata culturale di riferimento (intransigentismo radicale, esigenze di una trasformazione dei rapporti sociali e familiari, necessità di nuove forme di educazione civile) nella convinzione che la lotta armata sia l’unica risposta possibile per il cambiamento del Paese, rinunciando aprioristicamente a ‘produrre discorso’, limitandosi all’individuazione di alcuni nemici da eliminare fisicamente, assoggettando ogni norma di comportamento senza ‘ancorare’ minimamente le proprie scelte e le proprie idee a una qualsiasi giustificazione idealmente nobile. Il fenomeno è invece ben ‘fotografabile’ attraverso la formula della ‘degenerazione bellicista’: nell’universo militare non ci si pongono problemi di ‘qualità morale’ delle proprie azioni, poiché non esistono orrori o crudeltà, ma solamente questioni di ‘congruenza’ tra mezzi e fini, un’etica ‘dimostrativa’ legata al successo ‘geometrico’ degli obiettivi prefissati, che diviene preponderante rispetto a ogni ‘etica della convinzione’. Da ciò deriva un amore tutto totalitario per le gerarchie, per la disciplina esasperata, per la ‘compartimentizzazione’ organizzativa: queste sono le vere costanti, i più autentici codici di comportamento attorno ai quali è sempre ruotata la formazione culturale di questi cosiddetti ‘rivoluzionari’. Alla base del terrorismo vi è sempre stato un acuto senso di irresponsabilità, l’idea che si possa predicare senza agire o agire senza dichiarare le proprie intenzioni, che non si paghi mai per nulla, che non si debba render conto a nessuno del proprio operato. E si è sempre delineata chiaramente un’abitudine alla violenza nel suo doppio aspetto di affermazione di potere e di riconquista di un’appartenenza comunitaria (fare qualcosa di supremamente proibito significa, per questo genere di individui, imboccare una ‘scorciatoia’ che permette loro di allacciare legami che, altrimenti, non saprebbero come stringere in altro modo). Inoltre, dev’essere assolutamente sottolineata la perversa persuasione che ciò che conferisce ‘forza’ è l’elevatezza del ‘livello di scontro’, ovvero un’overdose di antagonismo che il ‘rivoluzionario’ deve forzatamente inoculare nei propri atteggiamenti, perché quanto più si è ‘duri’, tanto più è elevata la possibilità di ‘vincere’. Infine, vi sono ulteriori elementi di non secondaria importanza: uno stravagante senso di sicurezza per il possesso di un’arma, una mentalità ‘immediatista’, il rifiuto di ogni etica del lavoro, un linguaggio tutto giocato sul ‘massacro’ della sintassi, sulla ripetizione ossessiva degli slogan. Tutti segnali di una fragilità psicologica in cui grave si avverte la profonda debolezza verso ogni senso di identità, insieme a una patetica assenza di ‘anticorpi’ contro la paura della morte. In tutto questo ‘brodo’, ogni richiamo al marxismo-leninismo duro e puro, al materialismo dialettico, al pensiero operaio, alla lotta di classe, alla dittatura del proletariato, risulta totalmente astratto e ideologico: conta assai più l’assorbimento di precise tendenze degenerative della società contemporanea, l’introiezione di ‘figure di crisi’ rispetto alle quali i comportamenti ‘deviati’ si collocano in un rapporto di ‘specularità’. Come non riflettere, a proposito di questo genere di irresponsabilità, alla ritirata storica della borghesia italiana, al suo vile ‘ripiegamento’ sul privato, alla propria indifferenza verso i problemi concernenti la cosa pubblica? Come non cogliere, a proposito degli stereotipi militareschi cui si è fatto cenno, ai nessi esistenti tra il bisogno di una vita ‘elementare’ ed eterodiretta e i vari espedienti messi in atto per ridurre ogni complessità sociale mediante tecniche di controllo e di ‘disinformazione’ dalla precisa discendenza autoritaria? Come non chiamare in causa, al di là di quanto si creda o si pensi, il modello liberistico ‘mandevilliano’ teorizzato da Milton Friedman? Come mai nessuno riesce a far ‘mente locale’, a proposito di ‘autovalorizzazione’ e di rifiuto di ogni principio ‘laburistico’, a quei rivoli di assistenzialismo e di reddito garantito che son sempre ‘sgorgati’ dal nostro contraddittorio sistema di welfare? Come non riandare con la mente, in tema di arroganza corporativa, a quei fenomeni di asocialità ricattatoria che dipendono dall’enorme potere posseduto da alcune categorie ‘ristrette’, in un Paese in cui basta uno sciopero delle ferrovie per mettere in ginocchio l’intera collettività? Infine, come non mettere a bilancio, a proposito di afasia e di ‘sterilità valoriale’, al generale impoverimento qualitativo del nostro sistema didattico nazionale? Da più di trent’anni, sono queste le vere cause generatrici di intere schiere di giovani ‘senza passato’, i quali continuano a non sentirsi parte di una Storia troppo diversa dalla loro o che si ostinano a collegarsi ad alcune tradizioni grazie a un lessico da rivoltosi o a grammatiche iperideologizzate. Si tratta di persone che non riescono a elaborare un dignitoso ‘sistema di segni’ e le cui uniche forme di elaborazione spontanea discendono da ‘zattere’ ideologiche di salvataggio, tanto assolute, quanto incerte. Ecco, dunque, il vero motivo dell’opzione comunista rivoluzionaria: sia nelle Brigate Rosse, sia nella altre formazioni terroristiche del passato – Nap, Prima Linea, Nuclei combattenti vari - l’idea di rivoluzione è sempre assolutamente ‘statica’. Non si tratta di un qualcosa ‘in divenire’, di trasformazioni graduali, bensì dell’organizzazione di un’autonomia di classe da proteggere con le armi. Qualche anno fa, attraverso uno studio assai approfondito sulla cultura politica del terrorismo, Nando Dalla Chiesa ha riassunto le analisi più accreditate e i principali filoni interpretativi che si sono sempre intrecciati attorno a questo tema: accanto a chi ha sempre voluto porre l’accento sull’amalgama di alcuni ‘spezzoni’ di storia del comunismo, manipolati a piacimento dai sovversivi per via delle numerose ‘doppiezze’ e per l’ambigua rinuncia da parte della sinistra italiana a un’elaborazione socialdemocratica del concetto di rivoluzione (Rossana Rossanda), vi è sempre stato chi ha insistito sulla ‘delusione’ per l’immobilismo dei nostri lunghi decenni repubblicani (Nicola Tranfaglia), chi ha ridotto sbrigativamente ogni cosa alla precettistica del leninismo (Alberto Ronchey e Luciano Pellicani), chi ha sintetizzato ogni riflessione nella categoria del ‘diciannovismo’ e del ‘biennio rosso’, nel disprezzo storico di molta parte della sinistra italiana verso la democrazia parlamentare e il sindacalismo, coniugata a un’adorazione mitizzata delle cosiddette ‘avanguardie’ (Giorgio Amendola ed Enrico Berlinguer). Infine, vi è sempre stato chi ha richiamato l’attenzione su una sorta di ‘marxismo lirico’ (Franco Ferrarotti) e chi ha voluto prendere in considerazione un certo ‘soggettivismo esasperato’ o un discutibile gusto ‘estetizzante’ dei terroristi (Corrado Stajano). Ma se si vuol veramente comprendere fino in fondo questo fenomeno, oltre a simili superficiali atteggiamenti si deve cominciare a cogliere, definitivamente, la dimensione ‘nichilista’ e autodistruttiva degli individui che decidono di aderire alla lotta armata, fattori che hanno sempre pesato in misura notevole tra le loro motivazioni inconsce. Non si tratta di un nichilismo ‘drammatico’, derivante da forme di disperazione civile ‘pasoliniana’, bensì da una ‘supponenza’ di natura etimologica, in cui il ‘nulla’ non deriva dall’ablazione di sé, bensì dalla totale mancanza di ogni senso delle relazioni che si intrattengono, delle azioni che si commettono, degli ambienti che si frequentano, un universo psicologico in cui non solo non esiste alcuna frontiera tra bene e male, ma dove persino i sentimenti sono banditi e in cui capire e osservare la realtà diviene qualcosa di noioso, di superfluo, di fuorviante: conta solo piacere a se stessi e impegnarsi a spegnere nel nulla le vite altrui. Da tali caratterizzazioni è disceso l’ideologismo ‘dimostrativo’ e la spietata ‘strategia omicidiaria’ delle Brigate Rosse. E fino a quando la sinistra italiana non riuscirà a elaborare delle risposte soddisfacenti, intorno a simili questioni, l’ignoranza, l’astrattezza e la vacua prosopopea continueranno a giocare un ruolo a dir poco subdolo all’interno della nostra società.