Uno sviluppo economico sganciato da reali forme di progresso socio-culturale ha portato con sé una serie di nuovi problemi, fratture e imprevedibili contraccolpi, generando bisogni che un sistema autoregolato, per non dire ‘anarchico’, come quello italiano, difficilmente riuscirà mai a esaudire
Sino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, il nostro Paese ha vissuto una lunga fase di espansione economica. Ma, in termini strettamente quantitativi, non si è mai potuto parlare veramente di ‘boom’. Sviluppo e disponibilità occupazionale subirono semplicemente un’accelerazione niente affatto clamorosa, manifestando una serie di fenomeni che trasformarono le fattezze dell’Italia: imponenti migrazioni da sud a nord; una forte intensificazione della combattività operaia in ragione dell’assottigliarsi di quello che Karl Marx amava definire “esercito industriale di riserva” (i disoccupati); una progressione costante dei salari; un mutamento della composizione merceologica della curva dell’offerta a vantaggio dei mezzi di trasporto privati e degli elettrodomestici; una forte impennata dei consumi voluttuari. Benessere e agiatezza per tutti, dunque? Non esattamente, poiché ogni genere di sviluppo economico sganciato da reali forme di progresso socio-culturale porta con sé una serie di nuovi problemi, di nuove fratture, di imprevedibili contraccolpi. Oppure genera bisogni che un sistema autoregolato, per non dire ‘anarchico’, difficilmente riesce a esaudire (per esempio, le domande aggiuntive di nuove case, nuovi ospedali e nuove scuole) celando, altresì, al proprio interno, smottamenti e implosioni (un forte calo della disoccupazione che, a sua volta, genera un forte aumento dell’inoccupazione). Iniziando da quest’ultimo punto, occorre osservare che il raggiungimento della piena occupazione dei primi anni ’60 del ventesimo secolo fu tale solamente ‘sulla carta’, poiché le misurazioni eseguite a quei tempi vennero riferite al numero di persone materialmente presenti sul mercato del lavoro, mentre il tasso di attività - o saggio di partecipazione - vale a dire il rapporto fra gli occupati e la popolazione compresa nelle classi di età tra i 14 e i 65 anni, lungo tutto il corso di quel decennio crollò al 55%. Di una simile singolarità sono state escogitate spiegazioni svariate e distinte: constatando che fra il 1959 e il 1968 la popolazione italiana crebbe di 4 milioni e 200 mila unità, l’economista agrario Giuseppe De Meo calcolò un aumento potenziale della mano d’opera attiva di 1 milione e 451 mila persone: 965 mila uomini e 468 mila donne. Tuttavia, tra i primi, solamente 53 mila adulti avevano compiuto il loro ingresso tra le forze di lavoro effettive, mentre 616 mila persone erano studenti delle scuole medie superiori o universitari, 230 mila i titolari di pensioni di guerra o di invalidità, 66 mila i militari, i religiosi, gli inabili e i detenuti. Inoltre, la gran parte delle donne andava a ingrossare la schiera delle inoccupate (510 mila studentesse, 805 mila casalinghe, 47 mila pensionate precoci). Alla luce di simili dati, De Meo concluse, un po’ troppo ottimisticamente, che il tasso di ‘assenza’ dal mercato del lavoro dipendesse quasi sempre da motivazioni di natura ‘volontaria’, conseguenti al forte aumento dei livelli di reddito. Invece derivavano: a) dalla ‘liberazione’ di circa un milione di donne che, fino ad allora, avevano accudito occasionalmente all’agricoltura; b) dall’abbassamento dell’età di collocazione a riposo; c) dal regime più favorevole delle indennità di quiescenza; d) dall’avvento della scolarità di massa. Oltre a ciò, De Meo aveva trascurato dei fattori che definirei ‘contestuali’ di vera e propria dissuasione all’entrata nel mercato del lavoro, come ad esempio la grave inefficienza dei servizi pubblici, che ha sempre reso difficoltoso il semplice spostamento tra i luoghi di attività e le abitazioni, oppure la pesante sottrazione di mano d’opera provocata dall’emigrazione ‘esterna’ versa Svizzera, Belgio e Germania, un fenomeno che toccò l’apice di un milione di emigranti complessivi nel 1968. Un’ulteriore obiezione alla tesi di De Meo, ovvero quella di una disoccupazione sostanzialmente volontaria, si evince dalla disaggregazione su scala regionale dei suoi stessi dati relativi ai tassi di attività, a cui corrisponde un saggio di partecipazione che declina in una funzione direttamente - e non inversamente - proporzionale ai livelli di reddito. In pratica, in Italia è sempre esistita una componente ‘primaria’ del mercato dell’occupazione che non subisce alcuna influenza dall’andamento ciclico della domanda globale, congiunta a una componente ‘secondaria’ - formata da lavoratori ‘scoraggiati’ o ‘addizionali’ - che invece si mobilita solamente quando la situazione congiunturale diviene buona.
I GIOVANI E LE DONNE
Un’argomentazione del genere presuppone, naturalmente, una cronica scarsità di investimenti da parte delle classi imprenditoriali italiane. Caratteristica, quest'ultima, comprovata pienamente dall’economista Marcello De Cecco, il quale, richiamandosi alla teoria ‘ricardiana’ della rendita, è riuscito a dimostrare che, a un’attenta analisi dei tassi specifici di attività, i lavoratori ‘nel fiore dell’età’ non sono mai stati neppure sfiorati dalla flessione del saggio di partecipazione, quelli tra i 30 e i 39 anni lo erano minimamente, quelli tra i 40 e i 49 anni poco più che sensibilmente. In conclusione, coloro che venivano regolarmente espulsi dal ‘parco’ della forza-lavoro o che proprio non riuscivano a entrarvi erano, soprattutto, i giovani tra i 14 e i 21 anni di età, gli attempati tra i 60 e i 64 anni e quasi tutte le donne. Dal quadro appena esposto emergono alcuni indici tecnico-finanziari di ‘refrattarietà’ connessi a una domanda di lavoro tradizionalmente debole e assai selettiva, rispetto alla quale non sono mai esistite, in Italia, forze politiche o sindacali in grado di riassestare questi ‘benedetti’ tassi di partecipazione all’attività lavorativa: il ritiro delle donne dalla compravendita di capitale umano è sempre stato, ad esempio, il risultato di un’espulsione ‘soffice’, non di una ‘non richiesta’ o di una richiesta insufficiente, poiché la bancarotta demografica della nostra agricoltura aveva fatto scomparire una serie di prestazioni saltuarie che non rimanevano confinate nelle aziende domestiche e implicavano una seppur minima mobilità. Analogamente, il caotico assalto all’istruzione, anziché derivare da un adeguamento alle nuove esigenze del nostro apparato produttivo, si è sempre configurato come un effetto - e non come una causa - dell’inoccupazione giovanile, che ha trasformato le nostre scuole e le nostre università in gigantesche aree di parcheggio.
I TRE MERCATI
Del ragionamento di De Cecco, il sociologo Massimo Paci ne condivise la parte che atteneva alla struttura della domanda urbano-industriale. Dunque, decise di completarla attraverso un proprio bagaglio di studi raccolti in Lombardia, dal quale fu lecito dedurre che la nuova forza-lavoro ‘immigrata’ dal Mezzogiorno avesse inciso ben più in profondità di quanto non si fosse pensato, poiché questa non era andata solamente a occupare posti addizionali creati nelle industrie del nord rispetto alla forza di lavoro locale, bensì riuscì, in qualche modo, a comprimere l’offerta di lavoro stessa, persuadendo una certa quota della popolazione attiva ‘stanziale’ a uscire dal mercato o a dissuaderla dall’entrarvi. Paci, peraltro, riteneva che il nostro sistema economico possedesse capacità di autocorrezione e di aggiustamento. Tant’è che, secondo lui, in Italia esisterebbero almeno tre distinti mercati del lavoro - quello operaio, quello intellettuale e quello marginale - in cui gli ultimi due accolgono la mano d’opera respinta dal primo, assicurandole una retribuzione sostanzialmente equivalente, se non in termini di entità del salario, almeno in termini di minor costo della vita.
LA FAMIGLIA ‘MIRACOLATA’
Sia come sia, dando per accertato uno squilibrio negativo sostanzialmente irrimediabile fra domanda e offerta di lavoro, diviene gioco forza naturale concludere che la forte diminuzione del tasso di attività abbia sostanzialmente rafforzato, nel nostro Paese, l’istituto della famiglia ‘seminucleare’, ovvero quella in cui un solo membro percepiva regolarmente uno stipendio, mentre gli altri componenti o vivevano a suo carico, oppure concorrevano al bilancio familiare con sussidi pensionistici o brevi ingaggi a termine e ‘in nero’. Tutto ciò ha finito col ricadere pesantemente sulla morfologia di quella speciale variante del welfare state che è sempre stato l’assistenzialismo italiano, a norma del quale la mano pubblica, anziché erogare servizi collettivi creando sane opportunità di impiego, ha invece cercato di consolidare l’occupazione fissa impegnando mezzi ingenti nella sicurezza sociale, oppure di rilanciare gli investimenti finanziari accollandosi una parte degli aggravi - rappresentati appunto dal costo del lavoro - mediante politiche di esenzioni tributarie nelle aree depresse, oppure ancora attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali. La famiglia ‘miracolata’ ha così sancito la fine della civiltà del patrimonio e l’inizio di quella del consumo. Ciò non tanto perché il possesso di ricchezze mobiliari o immobiliari da trasmettere in eredità non rappresentassero un segno tangibile di distinzione, quanto perché la delega del rischio alla pubblica amministrazione, che garantì la stabilità del potere d’acquisto con una legislazione sociale favorevole o con provvedimenti antinflazionistici, ha incitato tutti quanti a forme di spesa indirizzate verso beni secondari più o meno durevoli. E ciò in quanto il volume dei guadagni non è mai praticamente bastato ad accumulare risparmi o proprietà a basso quoziente di remunerazione, mentre era più che sufficiente ad assecondare l’acquisto di generi voluttuari, caratteristica che da sempre contraddistingue i Paesi usciti da poco dall’arretratezza. Tale realtà è testimoniata dalla ‘disperata corsa’ degli italiani al rinnovamento degli interni domestici: nei ‘casermoni’ di periferia, abitati al nord dagli operai e dagli impiegati piccolo-borghesi e, talora, persino nelle casette monofamiliari costruite con le proprie mani dagli immigrati delle ‘coree’ milanesi, il vecchio tinello con i mobili in legno cedette ben presto il posto a un ‘soggiorno-pranzo’ ricalcato sul classico modello abitativo anglosassone nobilitato da poltrone in finta pelle, mentre la tradizionale cucina abitabile all’italiana fu sostituita da un vano compatto e funzionale di dimensioni spesso minuscole.
LA ‘TRANSUMANZA’
In tal senso, è pur vero che gli emigrati meridionali raramente potevano indulgere a consumi di genere imitativo o conformistico: prima di conquistare un appartamento in affitto o in proprietà, centinaia di migliaia di ‘terroni’ dovettero avvicendarsi nella baracche, nelle cantine, negli abituri gremiti, nei garages, nei dormitori pubblici e negli alberghi per i poveri. Continuo, incontrollabile e imprevisto, il loro arrivo trascinò al collasso le strutture ricettive delle grandi città, dando fiato a forme innumerevoli di speculazione e di frode. Per raccontare la storia di questa ‘transumanza’ senza precedenti, è buona cosa cominciare dal principio, ovvero dalla quantificazione dei saldi demografici attivi e passivi: le principali destinazioni degli emigranti furono, infatti, le regioni del triangolo nord-occidentale (Lombardia, Piemonte e Liguria) e, al loro interno, gli agglomerati metropolitani ad alta densità di industrializzazione (Milano, Torino e Genova), mentre le aree di partenza furono soprattutto la Sicilia, le Puglie, la Calabria, la Campania, gli Abruzzi, il Molise, la Basilicata e la Sardegna. Il massimo depauperamento demografico colpì la Basilicata, il maggiore afflusso di popolazione venne sopportato dal Piemonte e le provincie del sud che vennero più massicciamente disertate furono Enna e Foggia. Da una lettura in superficie di tali dati si può cogliere come gli agenti di espulsione fossero apparentemente differenziati (nel caso di Enna si trattava, per esempio, di un esodo rurale da una zona montuosa basata su un’economia di sussistenza, nel caso di Foggia, invece, di un esodo agricolo da una campagna sottoposta a veloci processi di meccanizzazione). Ovviamente, all’incalzante ricerca di lavoro si intrecciarono motivazioni supplementari di natura individuale: spesso, si emigrava perché si poteva contare su qualche familiare già sistemato al nord; perché si perdeva il posto e si era tormentati dai creditori; perché si campava esercitando mestieri giudicati degradanti dalla comunità (ad esempio, gli ‘stracciai’); perché si era stati partecipi di uno sciopero o di una lotta sindacale finendo in carcere per qualche giorno o per qualche settimana; perché si aveva una vaga dimestichezza con le città settentrionali acquisita durante il servizio militare; perché si rimaneva influenzati dalle lusinghe di chi si era già inserito e acclimatato; infine, in più di qualche caso, perché non si tollerava più l’autoritarismo e il tradizionalismo dei genitori. Ma come erano composti questi flussi di emigranti, visto che non sempre essi costituivano un campione rappresentativo dei loro luoghi di origine? Nei primi anni del ‘miracolo’, soprattutto da maschi adulti che si intrupparono in veri e propri ‘battaglioni di ventura’, anche perché la permanenza in vigore della legge del 1939 sull’urbanesimo - ora applicata, ora disattesa dai comuni interessati, che ricorrevano alla ‘scappatoia’ dei certificati di residenza provvisoria a seconda delle convenienze - li inchiodò a una clandestinità ‘di fatto’, su cui prosperarono le compagnie di procacciatori. Quasi nessuno si era rivolto agli uffici di collocamento (o perché non poteva, o perché avrebbe dovuto attendere per troppo tempo una chiamata) e quasi tutti preferirono farsi soci di una cooperativa di conterranei che, generalmente, li avviava alla manovalanza e al garzonato, richiesti dalle fabbriche cui erano collegate e che, non di rado, li indirizzava addirittura alla ‘linea’ - nei periodi di sciopero, di alta congiuntura o di imminente consegna delle merci - facendoli lavorare fianco a fianco con gli operai assunti regolarmente. L’impresa non versava i contributi assicurativi e la cooperativa tratteneva tra il 30% e il 50% della paga oraria dei soci a titolo di rimborso, quando addirittura non pattuiva essa stessa un compenso fisso. Quando la legge n. 1369 del 1960 vietò, finalmente, l’appalto e il subappalto della mano d’opera e gli ispettorati del lavoro iniziarono a muoversi con continuità e decisione, a poco a poco le cooperative vennero sciolte e sostituite dalle ‘carovane’, che normalmente erano organizzate da un sindacato e si occupavano soltanto delle mansioni di facchinaggio. Le carovane erano regolate da uno ‘statuto-tipo’ e da convenzioni con l’Inps, l’Inail e l’Inam. Ogni membro era datore di lavoro e lavoratore insieme: la carovana prendeva il lavoro per i soci, lo distribuiva e divideva i guadagni. Con un decreto prefettizio del gennaio 1961 vennero poi regolate le tariffe paga e le altre convenzioni. Ma anche messa in queste forme, ben presto si ingenerarono situazioni poco chiare: alcuni sindacati, infatti, avevano formato carovane che, in realtà, assumevano lavori a tariffe diverse da quelle stabilite. E non era affatto raro il caso di amministratori che fuggivano con la ‘cassa’, tanto che alcune carovane furono costrette a subire il blocco della distribuzione degli assegni familiari da parte degli ispettorati, in attesa che la situazione venisse regolarizzata. I singoli che salivano in avanscoperta per mezzo dei ‘treni del sole’ dovevano, inoltre, sottostare tutti alla medesima trafila: prima tuttofare, poi scaricatori, poi cottimisti nell’edilizia, infine operai a bassa qualifica. Quando, tuttavia, la curva di domanda iniziò a salire, sparì ogni indugio ed ebbe inizio il trasferimento in massa di migliaia di nuclei familiari al completo, con la sola esclusione dei membri più anziani. Nel quadriennio 1964–1967, l’unico del quale si dispongono di dati certi, i partenti isolati ammontavano solamente al 30% del movimento complessivo, mentre le famiglie erano già il 70%. L’indice di ‘femminilità’, fatti gli uomini pari a 100, si manteneva stabilmente ad un livello 102 - 103, cioè impercettibilmente più basso di quello documentato dal primo censimento nazionale del 1961 sull’intera popolazione del Mezzogiorno. La composizione media per età, rispetto al totale dell’emigrazione ‘interna’, vedeva, tra i meridionali, una più accentuata presenza di giovani al di sotto dei 15 anni e una netta rarefazione sia degli ultracinquantenni, sia degli ultrasessantacinquenni. Il divario nel grado di istruzione separava, infine, nettamente l’esodo manuale verso il nord-ovest, da quello ‘intellettuale’ verso il centro (Roma), dove ci si spostava non per fare gli operai, bensì i poliziotti, i carabinieri, gli insegnanti o gli impiegati nei ministeri, nelle prefetture, negli uffici postali, nelle intendenze di Finanza e così via. Gli insediamenti più caratteristici delle zone di approdo furono le ‘coree’, così chiamate perché i primi esemplari erano sorti durante gli anni del conflitto in Asia orientale. Esse spuntarono come fungaie nei comuni della cintura milanese: Cinisello Balsamo, Bollate, Cologno Monzese. La ‘corea’ era un viluppo disordinato di cubicoli addossati gli uni agli altri, che i meridionali trapiantatisi avevano eretto personalmente. Tali edifici sorgevano ai bordi dei paesi su terreni agricoli, inglobando i cascinali con le loro stalle o i loro pollai. Raramente venivano completati, perché i proprietari si ripromettevano di ampliarli in altezza, allo scopo di ricavarne stanze da affittare. Non erano allineati secondo criteri di razionalità quanto meno sommaria, bensì disposti obliquamente, trasversalmente, perpendicolarmente gli uni con gli altri, in modo che le famiglie non avessero a che fare con i propri dirimpettai e riuscissero a custodire una privacy aggressiva e sospettosa. Non vi fu anima viva a invocare negozi, scuole, chiese, ambulatori, farmacie: la ‘corea’ era poco più di un ‘pagliericcio sociale’, poiché la vera integrazione del forestiero e la sua iniziazione ai riti della modernità avveniva nel cuore della metropoli, non altrove. Dal punto di vista culturale, l’immigrato è sempre stato ‘roso’ da una disperata smania di assimilazione: per districarsi dall’avversione che lo circondava e che gli creava disadattamento, egli riteneva di dover far tacere rimpianti e nostalgie, di doversi mimetizzare in fretta e furia, di dover ‘affettare’ un’improbabile parlata locale, anche a costo di calunniare gli altri ‘terroni’ e di denunciarne le usanze primitive convalidando i più abusati ‘clichés’. In alcune pagine del ‘Meridionale di Vigevano’, Lucio Mastronardi imbastì una sferzante parodia di quest’atteggiamento, soprattutto dello zelo di coloro che si allenavano a parlare ‘vigevanese’ come fosse una lingua.
LAICI INCOSAPEVOLI
Esagerazioni? Deformazioni prive di ogni fondamento sociografico? Poco probabile, sia perché il moralismo allucinatorio di Mastronardi, con la sua furia sprezzante verso un mondo miserevole, infracidito dalla brama di denaro, non era affatto disattento alle sfumature, sia perché le più asettiche e pacate indagini statistiche hanno sempre confermato le numerose asimmetrie che esistevano nell’accettazione reciproca fra settentrionali e meridionali. Nel 1962, il centro di ricerche industriali e sociali di Torino intervistò 410 famiglie meridionali e un ‘gruppo di controllo’ di 120 famiglie piemontesi, al fine di valutarne la disparità o la concordanza di valori socio-culturali. Una prima domanda, che chiedeva di stabilire una graduatoria di azioni malfatte in ordine di gravità, ottenne una sostanziale omogeneità di risposte e un alto grado di correlazioni di vedute. Ma il secondo quesito, concernente la preferibilità tra alcuni mestieri e professioni, abbastanza curiosamente fece risaltare una concezione statica della realtà sociale, insieme a una traccia ben precisa di ‘desacralizzazione’ delle istituzioni. In sostanza, sia per gli autoctoni, sia per gli allogeni, sciabola e aspersorio stavano perdendo molto del loro fascino, non erano più segnacoli di preminenza o di potere. E persino la scrivania del questore e lo stesso scranno del deputato venivano trascinati verso le acque più basse della considerazione collettiva. Dove più, dove meno, impallidiva l’astro della Chiesa come depositaria di autorità sulle coscienze e dello Stato come detentore del monopolio della forza legittima. Si trattò dei primi segnali della nascita di una nuova società civile, intessuta di rapporti ‘orizzontali’ e di nuovi vincoli di obbligazione. Con un altro test, i ricercatori torinesi si sforzarono di decifrare gli atteggiamenti più genuini dei due campioni nei confronti delle tipizzazioni etniche più o meno distanziate geograficamente e culturalmente, atteggiamenti di cui vennero addotte spiegazioni che rappresentavano, molto spesso, delle razionalizzazioni totalmente incongruenti tra loro: in pratica, motivazioni identiche il più delle volte erano portate a convalidare giudizi opposti. Mentre il 61,8% dei meridionali dichiarava pateticamente di desiderare come parenti o amici coloro con i quali conviveva, le percentuali di rifiuto dei piemontesi erano, a dir poco, raggelanti: il 53,3% ce l’aveva ‘a morte’ con i calabresi; il 47,7% non amava i pugliesi; il 44,3% odiava i siciliani; il 42,6% non sopportava l’eccessiva prolissità dei napoletani. In tempi di razzismo non ancora esploso, molti addirittura avrebbero preferito accogliere in famiglia un ‘negro’ piuttosto che un connazionale dell’Italia del sud, reputato antropologicamente ‘inferiore’. D’altro canto, a ulteriore riprova della loro esclusiva volontà di omologazione, gli immigrati apparivano molto meno tolleranti dei nativi nei confronti di ‘negri’, ebrei o protestanti, poiché non si erano ancora affrancati dai propri preconcetti. Anzi, essi iniziarono ad accanirsi contro i ‘diversi’ per nazionalità o religione allo scopo di rinsaldare un ‘blocco nordista’ di cui volevano far parte con pieno diritto di cittadinanza. Ma perché, allora, i piemontesi ostentavano un segregazionismo così tetragono verso di loro? Quali erano le cause di una simile alterigia? Cosa si rimproverava a una massa di nuovi venuti che cercava solamente di blandirli? Al fondo di tutto, fermentavano una serie di stereotipi di una sorta di ‘satira del terrone’: alimentati dai cascami delle culture popolari, certe convenzioni di origine ‘etnica’ affondavano le proprie radici in comportamenti reali di lungo periodo. Nella fattispecie, tuttavia, per alcuni casi sembrava che nulla ne autorizzasse la riproposizione, se non il rinvio ad abitudini estinte o a situazioni remote, oppure come un prodotto di estrapolazioni indebite, di illusionismi, di inganni ottici favoriti dal confusionario inurbamento in atto. Si prenda il giudizio: “I meridionali fanno tanti figli e poi pretendono che siano gli altri a mantenerli”. Esso era senza dubbio motivato dalla prolificità degli immigrati, le cui famiglie, secondo un’inchiesta del 1974, erano mediamente composte da 3,5 membri contro i 2,9 locali. In realtà, tale convinzione era anche diretta a infierire su un fenomeno macroscopico come il sovraffollamento degli alloggi. Se poi si tiene conto del fatto che mille vani ospitavano, in media, 1002 ‘pionieri’ insediatisi a Torino prima del 1960 e che la media di questi era di 2,9 per famiglia, cioè perfettamente identico a quello dei nativi, la giustificazione dello stereotipo risultava clamorosamente smentita dai fatti, oltre che dal forte abbassamento della natalità media italiana già allora in atto. Altro esempio: l’idea che per i meridionali l’onore consistesse nel ‘non portare le corna’ era connesso al dato che le loro mogli raramente lavoravano e dall’interpretazione, assolutamente arbitraria, secondo cui ciò accadeva in quanto i loro coniugi, gelosi, le tenessero nascoste. Ora, fra le donne in possesso di un’occupazione, il 29% delle meridionali e il 29,6% delle torinesi dichiarava di lavorare per rendersi indipendenti. Non solo: per il 3,9% le immigrate giovani, per l’1,1% le vecchie e per il 4,6% le ‘indigene’ ammettevano di essere disposte a troncare ogni occupazione su desiderio del marito o del fidanzato. Come si può ben notare, si tratta di dati assolutamente omogenei. Ulteriore luogo comune: “I ‘terroni’ si aiutano solamente tra di loro”. Anche qui, la tipizzazione di un carattere sembra fornire un frammento di verità, se non altro perché la partecipazione alla vita pubblica tramite i Partiti politici e i sindacati, o le associazioni ricreative e sportive, era molto più tenue tra gli allogeni che tra gli autoctoni. Eppure, la scarsa socievolezza degli intrusi, o meglio la loro ritrosia all’integrazione multietnica, non sfociava affatto nella tendenza a rinserrarsi in sette, conventicole o informali società di mutuo soccorso: sentendosi circondati da una spessa cortina di diffidenza, essi generalmente si rifugiavano in famiglia e trascorrevano il proprio tempo libero con i parenti e, in misura assai minore, con gli amici.
NELLA TORRE D’AVORIO
Sono queste le analisi in grado di espiantare una serie di verità che potrebbero spiegare la nascita e il successo di un ‘blocco nordista’ rifugiatosi sotto la protezione della Lega Nord, o quello di un moderatismo cattolico storicamente malato di ‘voltagabbanismo’, che tende a riciclare il conservatorismo più gretto della destra italiana, non la formazione di ‘indistinti carrozzoni’ secondo un’accezione quanto meno ‘bislacca’ delle più autentiche tradizioni culturali della sinistra italiana. Una nuova sinistra non può rinunciare alle proprie origini cultural-popolari e deve assolutamente tornare alle ‘sudate carte’ delle proprie analisi di costume più rovistanti e razionali, anziché continuare ad affidarsi a operazioni ‘cosmetiche’ meramente di facciata. Ricostruire il Pci ‘travestendolo’ da Democrazia cristiana non offre nulla di nuovo a un elettorato in grado di accertare per proprio conto l’impronta burocratica di un ceto politico che si è illuso di poter inseguire Silvio Berlusconi sulla strada del paternalismo più effimero e di basso profilo: operazioni che rischiano solamente di rinchiudere la sinistra progressista all’interno di stucchevoli ‘torri d’avorio’, impedendole di interessarsi alle difficoltà concrete della vita quotidiana dei cittadini. Una sinistra che dimentica, oltre al proprio nome, persino il proprio cognome, non può essere in grado di offrire alcuna valida alternativa al ‘berlusconismo’ o all’orgoglio ‘territorialista’ della Lega Nord. Insomma, una cultura progressista degna di questo nome non deve mai dimenticare i problemi dei più deboli, il degrado imperante nelle periferie, la scarsa mobilità sociale imposta dalla più antimeritocratica e ricattatoria delle democrazie occidentali.