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28 Marzo 2024

La spina dorsale del Paese sono le PMI

di Vittorio Lussana
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capitalismo_Italia.jpgSin dal decennio ’60-’70 del secolo scorso, il nostro sistema economico è stato penalizzato dalle logiche imprenditoriali delle casate più illustri del capitalismo italiano. Una classe imprenditoriale che dal dinamismo generalmente imposto dagli eventi ha tratto vantaggi economici pur difettando d’intraprendenza.


Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all’autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti hanno spesso indotto i nostri manager a reagire all’atrofia del mercato azionario attraverso l’indebitamento e la conseguente emissione di obbligazioni, costringendo le banche ad assorbire le obbligazioni stesse e il Tesoro e la Banca d’Italia a sottoscrivere il deficit delle aziende. La gravità di questo saccheggio discende direttamente da un complesso intreccio storico tra affari e politica, che ha generato una decennale tendenza alle sollecitazioni e ai baratti, ai nepotismi e alle regalie, le quali a loro volta hanno alimentato un’economia sostanzialmente sovvenzionata, in barba alla tanto decantata ‘libera iniziativa’ sventolata ai ‘quattro venti’. L’Italia, dal punto di vista capitalistico, ha visto solamente la fossilizzazione di una ‘razza padrona’ che ha provveduto a confiscare il potere politico ed economico utilizzando il denaro dello Stato per finalità che non sempre con lo Stato avevano a che vedere. L’unico grande personaggio che ebbe il coraggio di denunciare i guasti inferti alla nostra economia da parte di una determinata ‘borghesia’ fu Enrico Cuccia, la cui mancanza, in questi anni, si sta facendo particolarmente sentire. In ogni caso, Cuccia era un banchiere che ragionava come tale. Dunque, non sempre riusciva ad affondare il ‘coltello’ tra i guasti più profondi del sistema economico, danni provocati da una leva di ‘capitalisti all’italiana’ che ha storicamente trasformato intere schiere di esponenti politici in autentici ‘fantocci merovingi’, ‘feudalizzando’ lo Stato al fine di assoggettarlo a una infinita serie di conflitti tra dovere e interessi. Non esistendo più, oggi, luoghi riconoscibili di potere legittimo, come si può stabilire se sia più opportuno, per lo Stato italiano, stanziare fondi per sostenere le spese di amministrazione del sistema giudiziario o per conservare il posto di lavoro degli operai della Fiat o riassorbire gli impiegati dell’Alitalia? La sinistra italiana, in questo particolare settore, ha commesso un errore storico di valutazione gravissimo: la cosiddetta ‘questione morale’ non avrebbe dovuto riguardare un particolare quoziente di disonestà e di corruzione del nostro ceto politico, ma l’inesausta proliferazione di un’economia ‘mista’ – senza riscontri negli altri Paesi dell’occidente capitalistico – che ha finito col sopprimere ogni auspicabile distinzione tra etica pubblica e utile privato. Eppure, l’Italia è anche il Paese di una solidissima ‘piccola industria’, di imprese ‘residuali’ che approvvigionano un mercato ‘atomizzato’, di aziende ‘anticicliche’ che assoldano mano d’opera nelle fasi di bassa congiuntura, di industrie ‘interstiziali’ che soddisfano una domanda fortemente specializzata. Insomma, il nostro sistema economico ha un’altra grande ‘spina dorsale’: quella dell’imprenditoria ‘periferica’, che non è affatto marginale rispetto ai tradizionali circuiti di scambio. Le manifatture con meno di 250 addetti sono compattamente distribuite nel centro-nordest della nostra penisola e hanno avuto una forte propagazione per via imitativa, generando un’area del mobile nel veronese, della produzione di scarpe nel varesotto, delle cucine componibili nelle Marche e cosi via. È la cosiddetta ‘terza Italia’ quella che vuole trovare la strada per espandersi e rilanciare il nostro ‘Made in Italy’ sui mercati internazionali, poiché presenta forti fattori di integrazione socio-culturale che riducono la conflittualità riproducendo una forza–lavoro saldamente affidabile nei confronti di un sistema intrinsecamente ‘altro’ rispetto ai tradizionali rapporti di produzione capitalistica. Insomma, i capitalisti ‘veri’, che rischiano i propri soldi, in questo Paese esistono. Eppure raramente sono tutelati, incentivati, aiutati, anche se lo meritano a pieno titolo. Da questo punto di vista, non ha tutti i torti chi vede nella manovra predisposta dal ministro Tremonti un qualcosa che non pone molto in evidenza le esigenze di rilancio economico del tessuto produttivo italiano. Tuttavia, non è certo la risposta dei grandi questuanti di fondi pubblici (americani, serbi o russi che siano) a convincere intorno ai difetti di una politica economica che impedisce ai ‘piccoli’ di entrare in mercati già colonizzati da altri. Sarebbe invece necessaria una ‘nuova alleanza’ tra imprenditori medi e piccoli, affinché il Paese possa resistere a quelle pressioni che contrappongono le esigenze di controllo della spesa pubblica al sostegno di quei ‘carrozzoni’ che, nel corso dei decenni, hanno assecondato, in linea di fatto, un sistema finanziario di aiuti statali, salvo poi disdegnare in pubblico ogni genere di teoria tesa a razionalizzare un sistema di servizi pubblici dignitosamente efficienti. In ciò, lo stesso ceto medio dovrebbe essere assai più attento, al fine di non lasciarsi incantare dalle ‘sirene’ della demagogia imprenditoriale più dirigista e ipocrita. Il ceto medio deve invece cominciare a guardarsi proprio dai grandi capitalisti, anziché dubitare delle intenzioni dello Stato, il quale, per indole naturale, è indotto a fare il proprio interesse al fine di predisporre una seria regolamentazione della spesa e un plausibile riassestamento del proprio bilancio. Gli slogan populisti e le ‘boutades’ dei ‘ricchi’ appaiono considerazioni risibili, che rendono soddisfazione proprio a quell’intellettualità politicizzata che pretenderebbe l’avvento di un socialismo burocratico alle cui enunciazioni di principio non seguono quasi mai puntuali elaborazioni programmatiche. Compito della classe media italiana è invece quello di comporre un nuovo ‘mosaico’, un novello atlante di affinità e differenze, provando a smantellare quelle incrostazioni clientelari che creano solamente un’economia di ‘relazione’ a vantaggio di pochi, un sistema che ha già causato una serie di crack finanziari danneggiando fortemente la nostra immagine sui mercati internazionali, rendendo altresì il nostro capitalismo un mero coacervo di interessi oligarchici e parassitari, chiusi a ogni genere di espansione e di nuova cittadinanza economica in favore di imprenditorialità e di soggetti produttivi moderni, innovativi, realmente competitivi.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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