Le differenze tra i due sistemi elettorali, quello italiano e quello americano, fanno riflettere sull’opportunità di prendere qualche lezione di democrazia dall’altra sponda dell’oceano. Le elezioni primarie dei due maggiori Partiti americani offrono infatti vari spunti di analisi.
In questi giorni, i sondaggi sulle primarie repubblicane negli Usa danno in risalita l’ex ‘spacciato’ Rick Santorum, scavalcando Newt Ginerich nel ruolo di antagonista al superfavorito e plurimiliardario Mitt Romney. Da noi, su scala più ridotta, a Genova l’indipendente Marco Doria batte alle primarie coloro che le avevano organizzate, cioè il Pd, causando un terremoto nel Partito di Bersani. E sul fronte del Pdl, addirittura, si invoca l’intervento della magistratura per indagare sulle false tessere in vista dei Congressi. Questi esempi bastano a evidenziare le differenze tra due sistemi elettorali, quello italiano e quello americano, e a riflettere sull’opportunità di prendere qualche lezione di democrazia dall’altra sponda dell’oceano. Le elezioni primarie dei due maggiori Partiti americani offrono infatti vari spunti di analisi. Facendo un passo indietro di quattro anni, tornando cioè al 2008 e alla sfida democratica tra l’allora favorita Hillary Clinton e il quasi sconosciuto Barack Obama, dobbiamo notare come quest’ultimo, oltre a combattere con candidati più quotati, dovette sfidare la non troppo velata indole razzista della società statunitense. Al grido di “Yes we can” e con delle idee innovative ‘in tasca’, Obama riuscì prima a conquistare l’elettorato progressista e poi a ‘occupare’ la Casa Bianca. Da qui la prima riflessione sul diverso modo americano di concepire la politica e accogliere le novità. Pur di imprimere un cambiamento e licenziare un’amministrazione, quella guidata da George Bush, che aveva causato la più grande crisi finanziaria dal 1929 e combattuto due guerre di stampo neoimperialista, gli americani non esitarono più di tanto a eleggere il primo presidente afro-americano. Da noi, invece, anche l’ultimo dei politici ‘trombati’ o con procedimenti legali in corso finisce per comparire in qualche consiglio di amministrazione parastatale o, addirittura, in parlamento. Ciò sottolinea che il clientelismo in Italia soffoca un sano ricambio di volti e di idee, confinando la nostra società alla stregua di un feudalesimo del terzo millennio. La bassa propensione al ricambio della classe dirigente italiana va di pari passo con l’eccessivo attaccamento alle ideologie novecentesche, che hanno caratterizzato lo scontro politico-sociale in Italia almeno fino agli anni ’80 del secolo scorso. La cartina al tornasole di ciò è Silvio Berlusconi: ancora nel 2012, non appena fa cenno al ‘rischio comunista’ in qualche discorso o convegno pubblico, riesce a raccogliere gli applausi convinti di molti elettori nostalgici, facendo leva su un atavico schema dicotomico ‘democristiani-comunisti’. Uno stratagemma comunicativo più vicino al ‘maccartismo’ americano degli anni ‘40, che allo spauracchio - ma lo è ancora in piena crisi economica e con milioni di disoccupati americani a spasso? - del presunto neo-socialismo di Obama. Ritornando al favorito repubblicano Mitt Romney e alle critiche ricevute negli Usa circa la sua immensa fortuna economica, il paragone con il Cavaliere di Arcore può reggere solo per un istante: dall’altra parte dell’Atlantico sarebbe inconcepibile un candidato presidenziale che possiede media e giornali. Il discorso sulla libertà di informazione là è sacro, a differenza del nostro ‘belpaese’, in cui i giornalisti indipendenti sono delle ‘oasi felici’ o, peggio ancora, dei puri ‘miraggi’. Una libera informazione, di certo, favorirebbe il ricambio di una classe politica spesso poco incline al concetto di legalità. Tuttavia, un germe di speranza lo possiamo intravvedere nell’Italia del 2012. Con il Governo tecnico guidato da Mario Monti è stato momentaneamente pigiato il tasto ‘pause’ nell’eterna e inconcludente diatriba politica. E, cosa ancor più interessante, stiamo attraversando una fase in cui i Partiti stanno facendo, più o meno consapevolmente, ‘harakiri’. L’occasione è più unica che rara: il treno è di quelli da non perdere, se si vuole sperare in una nuova classe politica, in cui le primarie possono veramente segnare le sorti del nostro Paese.