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19 Aprile 2024

Il neofita

di Fabrizio Federici
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Il neofita

Si delineano le prime idee del nuovo presidente americano, Donald Trump, in politica estera. Il suo approccio alle più spinose questioni internazionali sembra, in effetti, alquanto innovativo: forse anche troppo...

“Io voglio che i palestinesi godano di piena libertà e autonomia, purché non costituiscano una minaccia per noi”.
Questa la dichiarazione rilasciata recentemente, in merito all'interminabile conflitto israelo-palestinese, dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, durante il suo viaggio di Stato in Australia. Una dichiarazione sintetica, in cui a prima vista sembrerebbe non esserci nulla da obiettare: sin da quando furono firmati, nel 1992-'93, gli essenziali accordi di Oslo e di Washington, entrambe le parti in conflitto accettavano, come condizione essenziale per avviare la soluzione, "un territorio: due popoli, due Stati"; il reciproco riconoscimento sul piano internazionale; il diritto di ognuno dei due Stati a vivere in pace e sicurezza. Il problema è che cosa oggi la destra, al potere in Israele ormai da 8 anni, intenda per situazione che non costituisca, da parte palestinese, "una minaccia". Per capirlo meglio, oltre ovviamente alla concreta osservazione di quella che è la situazione quotidiana in Israele e nei Territori occupati, è utile fare un piccolo ‘passo indietro’ ai giorni del primo incontro ufficiale tra Netanyahu e il neopresidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, a metà febbraio scorso. Uno scambio di pareri dal quale sono emersi alcuni aspetti su cui è necessario soffermare l’attenzione. Per la prima volta da oltre venti anni, un presidente Usa ha dichiarato di non perseguire, come unica possibile via per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, la soluzione dei 2 Stati, l’uno israeliano, l’altro palestinese, ma di essere pronto ad accettare anche la soluzione di un unico Stato, se così vorranno le parti in lotta. Dichiarazione di per sé ambigua, che può avere una doppia interpretazione: anzitutto quella di un abbandono ‘de facto’ della richiesta di creare uno Stato palestinese che viva al fianco di Israele e in pace con esso, in pieno sostegno, quindi, alle tesi della destra israeliana più integralista, che non vuol più nemmeno sentir parlare di una simile ipotesi e che, però, difficilmente Trump, anche volendo, potrebbe 'sposare' in pieno; ma quello di Donald Trump può anche essere un ammonimento in stile ‘neoreganiano’, diremmo, un richiamo allo spirito d'iniziativa degli uni e degli altri rivolto sia a Israele, sia ai palestinesi, affinché le parti siano più disponibili ai compromessi (invito, questo, espressamente fatto dal presidente americano al leader israeliano in piena conferenza stampa, ndr) se vogliono evitare la prospettiva di un unico Stato. Ovviamente, scartiamo la terza possibile interpretazione: quella di un solo Stato arabo-palestinese regnante dalla Cisgiordania al Mediterraneo. Se guardiamo bene, si tratta, in sostanza, dello stesso ammonimento rivolto negli ultimi anni a Netanyahu da Obama e Kerry, secondo i quali, la possibilità di realizzare due Stati va facendosi sempre più difficile, date le modifiche che stanno verificandosi ‘in loco’, a partire soprattutto dalla continua espansione degli insediamenti israeliani.
Tra le poche proposte innovative degli ultimi tempi va citata anche quella fatta nel giugno 2016 da importanti esponenti israeliani e palestinesi, chiamata: “Two States, one Homeland”. Un’idea che prevederebbe una Confederazione sul territorio della Palestina storica in cui i due popoli, ovunque abitino, eleggano separatamente i propri organi rappresentativi e si autoamministrino, gestendo però in comune gli aspetti più rilevanti, a partire dalla sicurezza. Una proposta che, quantomeno, non chiude la porta alla soluzione di base, più giusta e logica, dei due Stati nella stessa terra, delineata, a onor del vero, dall'amministrazione Usa ormai da più di quarant'anni, ovvero sin dai tempi del ‘Piano Kissinger’ elaborato dall'allora segretario di Stato dell'amministrazione Ford, quella immediatamente ‘post Watergate’. Una logica che si riallaccia a una nuova architettura istituzionale del Medio Oriente, modellata, almeno in parte, sull'esempio dell'Europa comunitaria degli anni '60. Dei primissimi passi in questo senso vennero compiuti negli anni immediatamente successivi agli accordi di Oslo e di Washington, quando, prima che l'assassinio di Ytzhak Rabin, nel 1995, bloccasse gravemente tutto il processo di pace, poliziotti israeliani e palestinesi gestivano, insieme e con la supervisione di osservatori militari internazionali, la sicurezza in Cisgiordania.
Altro elemento di novità è il rinnovato invito di Trump a Israele a “trattenersi” sugli insediamenti: un modo garbato di riprendere le dichiarazioni presidenziali dei giorni precedenti, in cui il Governo israeliano veniva in sostanza invitato a concentrarsi sui grandi blocchi di insediamenti appena oltre la ‘linea verde’ (l’antico confine precedente la guerra del 1967), senza espanderne ulteriormente l’area e a evitare di sviluppare ancora gli insediamenti più avanzati. Ciò che Netanyahu era riuscito a negare a Obama, col quale i rapporti si erano fortemente raffreddati, obiettivamente è più difficile negarlo, oggi, all’alleato Trump, così pronto ad aiutare Israele sul piano finanziario e degli armamenti. Tant'è vero che il premier israeliano ha già dichiarato la volontà di porre un freno alle costruzioni negli insediamenti.
Per quanto riguarda il trasferimento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme, fortemente preannunciato da Trump ai primi di gennaio, di fatto esso è ‘congelato’: il presidente Usa ha dichiarato di voler considerare più attentamente il problema, mentre Netanyahu ha riconfermato il proprio auspicio in modi poco convinti (in realtà, gli israeliani hanno fatto sapere informalmente all’Amministrazione Usa di non aver particolare interesse alla cosa, che potrebbe provocare esplosioni incontrollate tra i palestinesi e nello stesso mondo arabo). Ancora, entrambi i leader hanno fatto riferimento alla necessità di costruire un quadro regionale di garanzie rispetto a qualsiasi accordo, essendo insufficienti quelle che l’Autorità nazionale palestinese, oggi obiettivamente indebolita, è in grado di assicurare in termini di sicurezza. Questa posizione si collega all’asse che, di fatto, Israele va costruendo in funzione ‘anti-iraniana’ con i principali Paesi sunniti: Arabia Saudita (emergente, come sappiamo, quale potenza regionale dell'area tra Suez e il Golfo Persico, dove sta guidando la coalizione contro l'insorgenza sciita degli houthi e dei miliziani fedeli all’ex presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh), Egitto e Giordania. Un’alleanza non dichiarata ufficialmente, ma sempre più operante in termini di sicurezza e difesa: una sorta, per rifarci all'Europa degli anni '30, di ‘Piccola intesa’ in ‘chiave’ mediorientale. Infine, comune è stata la condanna nei confronti dell’accordo internazionale raggiunto - con forte spinta da parte sia dell'Unione europea, sia dell'amministrazione Obama - sul programma nucleare dell’Iran: un compromesso che, da parte americana, di certo non si vuol cancellare, bensì monitorare attentamente, contrastando con durezza i tentativi di espansione regionale e le reiterate minacce anti-israeliane di Teheran. “Tutte linee, queste", osserva, in una nota, Janiki Cingoli, presidente del qualificato Cipmo, il Centro italiano per la Pace in Medio Oriente, "che per quanto riguarda Trump sono l’espressione di una linea politica e di una proposta in via di costruzione, ma che certo non possono essere ridotte, come troppo spesso si fa, a mera propaganda”. Se non ci sentiamo di condividere l'ottimistica valutazione di Cingoli, esprimiamo tuttavia l'auspicio che i diplomatici dell'amministrazione Usa, profondi conoscitori del ‘puzzle’ mediorientale, con la loro esperienza sappiano ovviare adeguatamente alle evidenti carenze di Trump e dei suoi più stretti collaboratori, sino a ora fermi, in sostanza, su una linea di politica estera di forte riarmo e di ripiegamento dell'America in sé stessa. Una visione in confronto alla quale, il già citato Reagan e il suo staff oggi fanno davvero la figura dei ‘giganti’.

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Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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