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29 Aprile 2024

Sull'immigrazione, la Ue è una cacofonia di ‘voci diverse’

di Carla De Leo - cdeleo@periodicoitalianomagazine.it
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La questione sempre più urgente dei migranti combina due priorità per l'Europa: il problema della sicurezza e l’obbligo morale di salvare vite umane. Secondo Lamberto Zannier, Segretario generale dell’Osce, serve un approccio comune e un 'ponte' tra risposte nazionali e regionali, in linea con quei principi di solidarietà di cui tanto si vanta la nostra società   

Lamberto_Zannier.jpgIl primo ‘Security Day’s’ dell’anno ha visto Roma protagonista di un dibattito acceso, più che mai attuale, ma soprattutto urgente. Il seminario Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), svoltosi lo scorso 4 marzo presso la nostra sede diplomatica, ha difatti posto l’accento sulla necessità di trovare al più presto delle soluzioni comuni e condivise: un 'ponte' tra risposte nazionali e regionali che vada oltre la gestione delle emergenze, guardando a soluzioni di lungo periodo. E non potrebbe essere altrimenti, a giudicare dai numeri: 60 milioni di persone fuggite dalla loro terra soltanto nel 2015, delle quali circa un milione ha trovato rifugio in Europa. Una realtà sempre più tragica e totalmente fuori controllo, ma che deve essere affrontata e risolta. Anche perché il fenomeno è tutt’altro che transitorio ed è destinato ad avere un forte impatto sulle generazioni future.
La questione dei migranti impone infatti una riflessione sulle priorità, che in questo momento riguardano soprattutto il problema della sicurezza e l’obbligo morale di salvare vite umane. Per questo motivo. non sono ammissibili decisioni unilaterali che, come ha sottolineato il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, “rischierebbero di scatenare reazioni a catena, che devono invece essere assolutamente evitate”.
Il Segretario generale dell’Osce, Lamberto Zannier, ha ricordato anche come la questione dei migranti si combini contemporaneamente a un’altra piaga: il traffico di esseri umani, configurandosi dunque come emergenza che, su più fronti, violi i diritti umani e quei valori di solidarietà su cui si basa la nostra società, dei quali l’Europa ne ha fatto principi cardine.
Ma in che modo mettere tutti d’accordo, arrivando il più presto possibile a queste politiche e agende condivise? In un’Europa che ‘predica bene’, ma che ancora non sembra saper arrivare al comune approccio, quanto altro tempo dovrà trascorrere prima di riuscirci? E soprattutto: quale sarà la ‘via giusta’ per farlo? Ne abbiamo discusso insieme all’Ambasciatore Lamberto Zannier, Segretario generale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.  

Ambasciatore Zannier, una curiosità innanzitutto: come mai scegliere Roma come sede di questo seminario su immigrazione e sicurezza?
“Dopo diversi ‘Security Days’ a Vienna, sede dell’OSCE, abbiamo cominciato a portar ‘fuori’ questo evento poiché ci siamo accorti di come questo ampli la prospettiva, a volte anche cambiandola. Ovviamente, parlando del fenomeno delle immigrazioni, l’Italia è certamente uno dei primi Paesi che vengono in mente. Tra l’altro, vista l’attenzione, il dibattito e l’impatto dei fenomeni migratori, la scelta di Roma mi è sembrata molto appropriata: innegabile che in Italia la drammaticità di questi eventi si viva molto da vicino. Io personalmente, infatti, sarei anche interessato alla possibilità dell’apertura di un piccolo ufficio OSCE a Roma, per avere costantemente un punto di attenzione verso i fenomeni dei rifugiati e dell’immigrazione”.

Rifugiati e fenomeni migratori sono ormai argomento di dibattito quotidiano e spesso di scontro, soprattutto in Europa: secondo lei, qual è la strada più efficace per fronteggiare un problema divenuto fuori controllo?
“Innanzitutto dobbiamo partire dalla consapevolezza che non si tratta di un fenomeno transitorio. Al momento ci troviamo in una fase di crisi acuta, soprattutto sulla questione dei rifugiati siriani. È un problema che quindi durerà nel tempo, in cui probabilmente assisteremo al consolidarsi di alcune tendenze. Quindi dobbiamo, da una lato, cercare di capire bene cosa sta succedendo interpretando segnali e tendenze; dall’altro devono essere elaborate delle strategie ampie e condivise: è questo è il nostro principale problema”.

Da tempo si sottolinea l’urgenza di politiche condivise, ma ancora nessuna vera proposta e nessuna strategia risulta all’orizzonte: quando sarà pronta l’Europa, se davvero vuole rispondere all’emergenza?   
“Noi europei ci vantiamo del modello di ‘governance democratica’ che abbiamo sviluppato e della grande attenzione per i diritti umani. Credo che questo sia il momento in cui dobbiamo provare che quello che diciamo è vero. E dobbiamo dimostrarlo nei fatti. Guardando il dramma di milioni di siriani che sono costretti a lasciare le loro case, noi europei dobbiamo aprire le porte. Si tratta di persone perseguitate, vittime di conflitti: è un nostro obbligo morale aiutarle ed è in linea con ciò che diciamo di essere. Ognuno deve fare la propria parte. Nel breve periodo, la sfida è l’assistenza e la condivisione degli oneri. Il principio deve valere per tutti, altrimenti rischiamo di disgregare quel che abbiamo costruito e che non è un’intesa commerciale, ma qualcosa di molto più profondo. Nel lungo termine, serve una politica articolata che permetta di affrontare tutte le angolature del problema: dal terrorismo alla questione dei migranti illegali, dalla gestione delle frontiere all’inserimento dei migranti e dei profughi nelle nostre società. Credo sia anche importante non demonizzare la questione dei migranti, che possono essere comunque un arricchimento”.

L’impatto dei flussi migratori avrà ripercussioni soprattutto sulle generazioni di domani: in che modo bisogna ripensare i principi di sviluppo sostenibile?
“Bisogna pensare a modelli chiave di sostenibilità sul lungo periodo, quindi interventi di cooperazione allo sviluppo e di interventi che in qualche modo correggano i rischi di sovrappopolazione e di squilibrio tra risorse disponibili e l’impatto che questo ha sulla qualità della vita in altre regioni e che può portare, nel tempo, a fenomeni migratori”.

L’epicentro dei programmi di sicurezza si è innegabilmente spostato dai territori di crisi ai Paesi ospitanti: siamo di fronte a una presa di coscienza del fallimento di un modello, non esportabile poiché non adeguato a esigenze e mentalità delle popolazioni?
“Non c’è un calo di attenzione sulla necessità di operare per la risoluzione dei conflitti e per la ricostruzione della pace post-conflittuale. Il problema è che ci troviamo in una fase in cui c’è più polarizzazione della comunità internazionale: lo vediamo nel conflitto ucraino, nei rapporti tra la Russia e l’occidente. E questo ha implicazioni anche nella gestione di crisi al di fuori dell’Europa, dove le agende dei principali attori internazionali non sono sempre compatibili, rendendo più difficile l’azione della comunità internazionale per facilitare la risoluzione dei conflitti. Questo è un ostacolo innegabile, che ci troviamo ad affrontare tutti in questo momento. Ma l’impegno rimane e stiamo cercando di affinare gli strumenti in nostro possesso. I tentativi quindi ci sono: divergono le interpretazioni sul come portarle avanti. Sussistono differenze sui modelli, pertanto è necessario trovare un equilibrio, anche perché ormai abbiamo piena consapevolezza di quali siano i parametri chiave: cercare di rafforzare lo Stato di diritto, lavorare sui processi elettorali perché siano democratici e aperti, lavorare sui raccordi tra le istituzioni e quindi per l’indipendenza della magistratura, ad esempio. Principi che ormai vengono generalmente riconosciuti. Ma ovviamente non esistono modelli universali. Ed è importante che ci sia anche questa umiltà nel riconoscere che ci sono differenze culturali, storiche, anche religiose, che non devono essere necessariamente eliminate. L’importante è adattare questi principi ai valori, alle culture, alle condizioni locali. E questo è molto difficile, ma la sfida è proprio questa. Non ci sono scorciatoie verso quello che chiamiamo modello democratico. E noi stessi, in occidente, abbiamo impiegato secoli per arrivare al livello che abbiamo oggi. Non possiamo perciò aspettarci che Paesi che sono usciti da esperienze difficili possano trasformarsi completamente nell’arco di pochi anni. C’è bisogno di cambi generazionali, lavorando con i giovani, con le donne e con tutti i settori della società. Ma sempre con grande attenzione agli elementi sociali e culturali all’interno dei vari Paesi. In tutto ciò si innesca la difficoltà della gestione delle emergenze, quindi degli interventi immediati, e quello della politica di lungo termine, dove è più difficile avere un impegno dei governi, che tende ad essere maggiormente diretto sul breve termine, dominato dall’emergenza e dal quotidiano”.

Secondo lei, quando e come tutti gli attori convergeranno in una soluzione condivisa?
“Quello che serve, a mio giudizio, è soprattutto una leadership. Abbiamo bisogno di forti leader in Europa che sappiano anche spiegare queste politiche e che non lancino messaggi diversi. Ci deve essere una strategia e una leadership condivisa in Europa per portare avanti le scelte. Purtroppo la cacofonia odierna di ‘voci diverse’ non da una buona immagine dell’Europa in questo momento”.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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