Autoproclamatasi indipendente nel settembre 1991 con la dissoluzione dell’Urss e la secessione dall’Azerbaijan, la Repubblica del Nagorno Karabakh (NKR), abitata in maggioranza da armeni (95%) ma racchiusa entro i confini, appunto, dell'Azerbaijan, dal 1992 sta vivendo uno dei più sanguinosi conflitti del Caucaso (30 mila morti e circa un milione di profughi), nonostante la tregua stabilita dagli accordi di pace di Bishkek (Kirghizistan, 1994) e la più recente ‘Dichiarazione d’intenti’ di Madrid del 2007. Dall’agosto 2014, il conflitto si è anzi allargato, raggiungendo alcune zone limitrofe alla frontiera armeno-azera (provincia di Tavush), mentre i negoziati condotti dal Gruppo di Minsk, organo istituito dall’Osce nel 1992 e guidato da una copresidenza russo-franco-statunitense, non riescono a ottenere risultati significativi. Coi loro interessi economici e strategici - da sempre il Caucaso rappresenta un’area chiave per il controllo di enormi flussi commerciali ed energetici tra oriente e occidente e nord e sud del mondo - sia Ankara, sia Mosca favoriscono più o meno direttamente lo stallo del conflitto. Mosca persegue la classica politica adottata nelle mille crisi esplose, dal '92 in poi, tra i resti dell'ex impero sovietico (favorire le ‘Repubbliche-enclave’ in lotta contro i poteri dominanti la regione: caso tipico, l'appoggio ad Abbazia e Ossezia del sud, nel 2008, contro la Georgia). Chiaramente, l'Armenia, ‘quinto incomodo’, sostiene il Nagorno-Karabakh, per il quale la guerra significa autodeterminazione del popolo armeno contro il dominio azero, nonché una questione di giustizia verso l’ingegneria sociale sovietica, che nel 1923, con Stalin salito al potere da pochi anni, decise il cedimento del territorio a Baku. Col proposito di riunire l’Artshak (nome armeno del Nagorno Karabakh) all’Armenia, le Forze armate di Erevan continuano a occupare le sette province azere che circondano la regione, per garantirne la sicurezza. La Russia fornisce armi e sistemi di difesa al suo storico alleato armeno, ma allo stesso tempo porta avanti una cooperazione tecnico-militare con l’Azerbaijan per circa 4 miliardi di dollari. A questo quadro già così complesso si è aggiunta, lo scorso 2 aprile, la notizia di un nuovo attacco militare azero su vasta scala, con carri armati, artiglieria pesante e mezzi aerei contro il NKR: un’offensiva respinta dopo forti combattimenti dalle forze della Repubblica. L'Armenia, oltre ad appoggiare di fatto l'NKR, minaccia di procedere a un prossimo riconoscimento ‘de jure’ della Repubblica (sinora evitato per non esacerbare i rapporti con Baku). Infine, secondo alcuni fonti militari, 50/70 militanti dell'Is di etnia azera avrebbero lasciato la Siria per raggiungere, via Turchia e Nakichevan, l’Azerbaigian, al fine di unirsi nella battaglia per il Karabakh. Di questo articolatissimo teatro di crisi abbiamo discusso con un esperto di questi temi: il professor Emanuele Aliprandi. Romano, membro del Consiglio della comunità armena di Roma, Aliprandi è autore di un documentato saggio su questa piccola terra e il suo fiero popolo, ‘Le ragioni del Karabakh’, edito da ‘My book edizioni’ (per lo stesso editore aveva già pubblicato, nel 2009, un altro ottimo saggio ‘1915: cronaca di un genocidio’, centrato sullo sterminio degli armeni visto dai quotidiani italiani dell'epoca). Aliprandi è inoltre membro di ‘Iniziativa italiana per il Karabakh’, un gruppo di studio che (citiamo dal loro sito www.karabakh.it) “ha l'obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica italiana la repubblica armena del Nagorno Karabakh-Artakh, la sua storia, la sua cultura, il suo territorio. Ma, soprattutto, il suo diritto all’autodeterminazione e i principi giuridici e politici che ne sono alla base”.
Professor Aliprandi, come si è giunti, dagli anni dell'Impero sovietico, a una situazione così esplosiva, in uno scacchiere, come quello caucasico, da sempre polveriera di forti tensioni etniche e geopolitiche?
“Nel 1918, quando cominciò la ‘sovietizzazione’ della regione, gli armeni erano il 96% della popolazione totale del Nagorno Karabakh. I Congressi del popolo del Karabakh ripetutamente chiesero di essere aggregati al Soviet dell’Armenia, terra a loro vicina per cultura (religione, ma certamente allora non potevano dirlo) e provenienza etnica. Ma tutto fu inutile: l'ufficio del Partito comunista sovietico per il Caucaso, invece di accogliere tale richiesta e demandare la decisione a Mosca, si riunì e, sotto la pressione di Stalin, decise di “lasciare il Nagorno Karabakh entro i confini della Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaijian e dare allo stesso ampia autonomia regionale". Stalin voleva ‘curare’ i rapporti con la Turchia di Ataturk: e così gli ‘regalò’ la sua politica di spartizione del Caucaso. Anche il Nakhichevan (zona meridionale dell'Armenia, con popolazione al 60% armena) venne lasciato all'Azerbaijan (da sempre filoturco, ndr). Per circa 65 anni, il fuoco continuò a covare sotto la cenere”.
Poi giunse la ‘perestrojka’ di Gorbaciov?
“Nel 1987, una petizione al Governo di Mosca, firmata dalla quasi totalità della popolazione del NK, chiese nuovamente l'inserimento della regione nella giurisdizione del Soviet dell'Armenia. S'inasprì così il confronto tra etnie e, nel 1988, iniziarono una serie di massacri di armeni in Azerbaigian, a Sumgait (con vera e propria ‘caccia all'armeno’, stile 1915), Kirovabad e nella stessa capitale: Baku. Quando, il 30 agosto 1991, con l'Urss che stava ormai crollando dopo il fallimento del ‘golpe’ stalinista di Mosca, l'Azerbaigian proclamò la sua indipendenza, decise di portarsi dietro anche il ‘regalino’ sovietico del 1923, cioè appunto il Nagorno, dimenticando, però, che una legge sovietica del 1990, fortemente voluta da Gorbaciov, stabiliva chiaramente il diritto di qualsiasi Repubblica di staccarsi dall'Urss, ma anche il diritto delle regioni autonome all'interno di singole Repubbliche (era il caso appunto del Nagorno) di scegliere diversamente, optando magari per restare nell'Urss. Nell'autunno del 1991, il Soviet del NK decise pertanto di non seguire l'Azerbaigian nella sua secessione, ma di optare per l'indipendenza: a novembre dello stesso anni, la Corte Suprema dell'Urss confermò che l'Azerbaigian non aveva potere normativo in materia. Il successivo referendum indetto nel Nagorno confermò la scelta per l'indipendenza, con la quasi totalità dei consensi. E dopo le elezioni libere del 26 dicembre, a gennaio nacque il nuovo Stato del NK, seppur non riconosciuto sul piano internazionale. La risposta dell'Azerbaigian, il 30 gennaio 1992, fu la guerra: un conflitto dureto due anni nella fase calda, riaccendendosi poi, subdolamente, a intervalli periodici, sino a oggi”.
Cosa prevede, oggi, per il futuro di questi due Paesi?
“Ora, la guerra ‘calda’, riaccesasi lo scorso 1° aprile, è appunto in una situazione di ‘stallo’: l'Azerbaigian non riconosce l'indipendenza del NK e vuol mantenere la sua continuità territoriale; il Nagorno non vuole assolutamente esser più governato dall'Azerbaigian (teniamo presente che il primo Paese, secondo i parametri generalmente usati a livello internazionale, risulta agli ultimi posti nel mondo per livello generale dl libertà, mentre il secondo ha alti livelli di democrazia). Non c'è alternativa a una forte pressione della comunità e delle organizzazioni internazionali, Onu innanzitutto, sui due Paesi, perchè accettino di sedersi a un tavolo di trattativa. La mia opinione è che, prima o poi, si arriverà a un accordo, anche perchè gli interessi dell'occidente vanno esattamente in questa direzione e in quelle terre passano linee petrolifere vitali per la sua economia. Intanto, però, dev'essere assolutamente rispettata la tregua raggiunta martedì 5 aprile, che gli azeri spesso vìolano. E devono cessare le atrocità come quelle perpetrate dalla truppe azere tra i civili armeni del Nagorno, efferatezze che nulla hanno da invidiare a quelle commesse dagli uomini del Daesh”.