L’hanno definita ‘primavera araba’ o, per darle un tono più colorito, la ‘rivoluzione dei gelsomini’. Altre simili espressioni descrivono i moti di proteste nel mondo islamico iniziati nei primi giorni del 2011 dalla Tunisia e poi diffusisi negli altri Stati. A un anno di distanza, è la Siria l’unico teatro di scontri attivo, ma dagli esiti ancora incerti, anche se l’Egitto ha vissuto, nelle scorse settimane, dei rigurgiti di violenza e la penisola araba è sotto stretta osservazione per le incalcolabili conseguenze di una sua possibile ‘implosione’.
Tunisia
Tutto ebbe inizio il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi, un giovane ambulante cui la polizia aveva sottratto le merci per delle presunte irregolarità, si diede fuoco per protesta. L’estremo gesto, culminato con la morte, ben rappresentò l’esasperazione di una generazione alla ricerca di un futuro migliore e con più libertà. L’eco dell’episodio si diffuse con l’aiuto dei social network, costringendo il pluridecennale dittatore Zine El Abidine Ben Ali alla fuga. La Tunisia ha vissuto una svolta nel processo democratico con le recenti elezioni del 23 ottobre 2011, che hanno portato alla vittoria il Partito islamico ‘Ennahda’, contrario alla violenza e con un occhio di riguardo verso l’Europa. Il Governo di transizione dovrà apportare le riforme necessarie per stabilizzare il Paese”.
Egitto
Il secondo Stato arabo contagiato dai moti di protesta è stato quello egiziano, anch’esso guidato da un regime tanto repressivo quanto rassicurante per le potenze occidentali, che hanno fatto della stabilità nell’area una delle massime priorità. Con le rivolte nella celebre piazza Tahrir, anche Hosni Mubarak ha dovuto cedere il passo a una giunta militare schieratasi fin da subito con i rivoltosi egiziani. L’immagine dei carri armati, che per una volta non attaccano i manifestanti ma li proteggono, lasciavano ben sperare sul futuro democratico del Paese. I fatti dello scorso novembre con la ‘piazza-simbolo’ di nuovo colma, ma questa volta contraria agli uomini in divisa mimetica, la dicono lunga sul clima di instabilità che si respira all’ombra delle piramidi.
Libia
La primavera araba in versione libica ha assunto sin da subito una connotazione politica e di lotta interna. La composizione demografica del Paese e la divisione in diverse tribù hanno innescato una guerra civile tra le forze fedeli a Gheddafi e i gruppi ribelli. L’intervento ‘umanitario’ anglo-franco-italiano, con la partecipazione marginale degli Stati Uniti, hanno accelerato la fine del dittatore, catturato e sommariamente ucciso dai ribelli lo scorso 20 ottobre a Sirte. Attualmente, la Libia è guidata da un Governo di transizione più preoccupato per il rinnovo dei contratti petroliferi con l’Occidente che a mantenere l’ordine pubblico. Al momento, la nuova Libia è ancora un ‘non Stato’ in cui è difficile immagine un futuro all’insegna dell’unità territoriale.
Penisola arabica
Gli Stati della penisola araba preoccupano per la questione petrolifera e il significato religioso assunto: l’Arabia Saudita, custode dei due luoghi sacri dell’Islamismo, ha subito mobilitato le ingenti risorse economiche per ammansire i suoi sudditi e sta avviando riforme minime per placare nuove rivolte. L’occupazione del Bahrein da parte dei sauditi, passata silente nell’opinione pubblica mondiale, ha scongiurato un’escalation di violenze tra sciiti e sunniti. Nello Yemen, infine, si attende con fiducia il ritiro annunciato del presidente Saleh.
Siria
I disordini in Siria sono l’unico teatro attivo nel 2012 e ben rappresentano gli emblemi del primo anno di primavera araba: repressione da parte del regime di Basham al-Assad; poca attenzione della comunità internazionale al di là dei moniti lanciati da Washington e dalle altre capitali europee; scarsa incisività dei rivoltosi fin quando l’esercito non deciderà di passare dalla loro parte. La rivolta in Siria è iniziata a marzo 2011 con i cosiddetti ‘venerdì della collera’, che nei mesi successivi hanno prodotto migliaia di uccisioni. Il presidente Assad, appartenente alla minoranza religiosa degli Alauiti e pronto a tutto pur di non cedere il potere, non ha disdegnato la violenza durante la cruenta repressione. È fin troppo chiara la noncuranza da parte delle Nato e dei Paesi occidentali nell’intervenire con una missione umanitaria simile a quella che ha messo fine al regime libico di Muhammar Gheddafi. Non serve una profonda conoscenza della geopolitica per trovare il nesso tra la risoluzione Onu n. 1973/2011 e gli interessi economici in ballo a Tripoli, evidentemente mancanti nel territorio siriano. Alcune considerazioni sono d’obbligo per una completa analisi della primavera araba: a) la prima riguarda il ruolo del web nella diffusione dei moti, in una popolazione molto giovane che accede facilmente a internet. Facebook, Twitter e la rete in generale hanno permesso di coordinare le rivolte, aggirando con efficacia i tentativi di censura; b) destano invece allarme le possibili interferenze dei fondamentalisti nel processo di trasformazione dei Paesi interessati. La Tunisia si è affidata a un Partito islamico, anche se moderato. Il rischio appare più concreto in Egitto e in Siria, in cui le frange estreme potrebbero offuscare i sogni dei ragazzi arabi di un futuro più libero e democratico.