Mentre gli Usa sono alle prese con la seconda vittoria di Obama, l’Italia si concentra sulle primarie e su una politica ormai degenerata e i Paesi centrali dell’Europa sono alle prese con una Merkel 'rigida', quelli orientali si preparano a ‘farci le scarpe’. Sappiamo che le economie emergenti saranno le nuove potenze future; che un giorno a fianco della lingua inglese avremo, come secondo ‘idioma’, il cinese o l’arabo, ma siamo pronti ad accettare una realtà futura in cui le vecchie logiche coloniali saranno solo un lontano ricordo? Il processo, che lo si voglia o no, è inevitabile. E si estende a tutta quella parte di mondo. Tanto che, dopo le rivolte che hanno afflitto gli Stati nord africani, ora assistiamo all’evoluzione storica del Paese esportatore mondiale di teina: l’India. I segnali erano nell'aria. Già lo scorso anno, il 'Times of India' riportava le dichiarazioni del ministro dello sviluppo del Paese, Palaniappan Chidambaran, che affermava di voler liberalizzare l’economia indiana così da compiere un sorpasso rispetto alla Cina. Una gara tutta orientale che l’occidente osserva costantemente (tanto che il giornale americano 'The Economist' ha dedicato, negli ultimi anni, più di una copertina alla cosiddetta ‘rivoluzione indiana’). Certo è che la Cina continua a dibattersi negli effetti della legge del 'figlio unico', che pesano fortemente sulla riforma pensionistica, mentre l’India, grazie a una forte crescita della popolazione, riesce a garantirsi una maggior forza lavoro. Tuttavia, i problemi che affliggono il Paese degli elefanti sono ancora troppo ampi per garantire un veloce sviluppo economico. Anche se le grandi città, quali New Delhi e Mumbai, stanno subendo un costante ammodernamento, da un punto di vista economico, sociale e sanitario l'India è costretta, ancora, a ‘zoppicare’. Dal punto di vista dello sviluppo interno, la superiorità della Cina, per quanto concerne la sanità e l'istruzione, è indubbia (in India, i bambini vanno a scuola per soli quattro anni, mentre in Cina la scuola dell'obbligo dura all’incirca sette anni e mezzo). Al di là di Pechino, l'avanzata indiana comunque richiama l’attenzione anche di Russia, Brasile, Turchia, Indonesia e Sudafrica. Secondo il Bric – association of leading emerging economist - nel 2050 assisteremo a un sorpasso dell’India sul G7 (ovvero il gruppo delle finanze internazionali costituito dalle sette nazioni più industrializzate). Ma, come sappiamo, ogni grande rivoluzione ha le sue conseguenze. In questo caso, a farne le spese saranno i proprietari di negozi e le loro famiglie, che da sempre hanno costituito lo scheletro economico e finanziario dell’intero Paese e che, a causa del piano di liberalizzazioni recentemente varato dal Governo indiano, le quali rendono più semplici gli investimenti stranieri, subiranno la concorrenza di grandi multinazionali come 'Walmart' o 'Tesco' (che potranno entrare nel mercato con quote di maggioranza fino al 51 per cento). La legge fa parte di un pacchetto di riforme che prevede anche la parziale privatizzazione di quattro compagnie statali nel settore minerario ed energetico, nonché il via libera a investimenti diretti stranieri nell’aviazione civile fino al 49 per cento. Una prospettiva che ha innescato piccole rivolte nelle piazze, roghi alle statue e iconografie dell’attuale premier, Manmohan Singh, con conseguenti blocchi di strade, ingorghi automobilistici, scuole e uffici chiusi. Oltre il danno, la 'beffa': il prezzo del gasolio è salito di circa 14 rupie, quasi 0,20 cent di euro al litro, a fronte di un’inflazione che ha raggiunto quota 10%. La protesta si è fatta sentire non solo nelle grandi città: Calcutta o Bangalore hanno voluto partecipare mantenendo le saracinesche dei negozi abbassate. La terapia Singh, che va a modificare lo scheletro dell’economia di un Paese modellato sullo stampo socialista, da una parte suscita l'ira dei Partiti di opposizione (da quelli di sinistra del 'Left Front' ai nazionalisti hindu del 'Bharatyia Janata Party -Bjp'), mentre dall'altra raccoglie l’entusiasmo di 'India Inc.', l’insieme dei grandi gruppi imprenditoriali indiani, delle agenzie di rating e dei mercati. Gli scenari apocalittici descritti dal Bjp, che prevedono "milioni di persone condannate alla disoccupazione e mercati locali costretti a chiudere per la concorrenza dei grandi supermercati stranieri”, secondo James Fontanella-Khan, a lungo corrispondente dall’India per il 'Financial Times', sono "fandonie pre-elettorali". Come ha spiegato in un'intervista rilasciata pochi mesi fa a Linkiesta: «La maggior parte dei consumatori indiani vive nei villaggi, stiamo parlando del 65 per cento della popolazione, e si affidano al piccolo distributore, mentre nelle città gli spazi per realizzare nuovi supermercati dove vendere a prezzi concorrenziali sono scarsi. Per questo i supermercati che già esistono nelle metropoli indiane sono dei “luxury stores” che si rivolgono a una clientela di super ricchi». In realtà, la liberalizzazione della vendita al dettaglio avverrà all’interno di 'paletti' molto rigidi (le multinazionali potranno aprire i propri supermercati solo nelle città con più di un milione di abitanti) e l’effetto delle riforme consentirà di modernizzare la catena della distribuzione dal produttore al consumatore, attualmente in uno stato disastroso (a causa delle pessime condizioni delle strade, circa il 30 per cento dei prodotti agricoli marcisce prima di raggiungere i banchi del mercato). Insomma, secondo le camere di Commercio locali l’evolversi verso un economia di tipo occidentale permetterà al mercato indiano, intorno al 2020, di raggiungere un Pil di circa 1300 miliardi (più del doppio di quello attuale, che sfiora i 500 miliardi). E' veramente preparata l'economia occidentale, in termini di competitività, ad affontare una concorrenza di tale portata?