L’uccisione di due giornalisti stranieri in Siria lo scorso febbraio, durante le repressioni perpetrate da Bashar Al Assad nei confronti dei ribelli, è la tragica evoluzione di un clima di violenza ormai in atto da un anno. Le ragioni per cui il presidente siriano non intende cedere il passo hanno delle implicazioni religiose, mentre i tentennamenti dell’Onu circa le misure sanzionatorie da applicare sono il frutto dei veti incrociati di Russia e Cina in seno al Consiglio di sicurezza. La vittoria del ‘Sì’ al referendum per la nuova Costituzione, che prevede la fine del sistema monopartitico, non placa le proteste. Partiamo da un dato numerico, che illustra spietatamente la portata dell’eccidio: l’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo, alla data del 22 febbraio ultimo scorso contava più di 7600 morti: circa 5500 erano civili opposti alle forze governative, mentre i restanti appartenevano ai militari lealisti e disertori. Il fattore religioso s’intreccia con gli equilibri politici nel Paese, spiegando il mancato epilogo sulla scia di Egitto e Tunisia con i ‘presidenti-tiranni’ costretti alla fuga. La Siria è uno Stato a maggioranza sunnita, mentre la famiglia del presidente Al Assad appartiene alla setta sciita degli alawiti, così come i vertici militari. Un’eventuale abdicazione comporterebbe la perdita del controllo territoriale e la loro messa in minoranza nel Paese. Già nel 1982, in seguito a un’analoga insurrezione ci fu una dura repressione contro la città simbolo dei ribelli, Ḥamā. Oggi è Homs la roccaforte eversiva presa di mira dai bombardamenti indiscriminati del governo, che fanno salire il numero delle vittime civili e il grado d’indignazione della comunità internazionale. Se l’opinione pubblica mondiale si muove verso una condanna unanime della violenza, spingendo Paesi come la Germania a prendere posizioni nette dopo il ‘flop diplomatico’ sulla questione libica, sono i due Stati permanenti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia e Cina, con diritto di veto, a mostrare reticenza verso una presa di posizione netta. I motivi sono di ordine geopolitico e ideologico. Il secondo riguarda soprattutto Pechino, che difficilmente concede un ‘sì’ che comporti, seppur lontanamente, un intervento umanitario con conseguente violazione della sovranità. La Russia, invece, si sente vicina a Damasco per due motivi: Bashar Al Assad permette la presenza di una base marina russa nel suo territorio; in secondo luogo, Putin ha stretto dei rapporti commerciali e bellici con la Siria, fornendo le armi stesse con cui si reprimono le proteste. L’approvazione della nuova Costituzione tramite una consultazione referendaria che prevede la fine del regime monopartitico e apparenti aperture in senso democratico non placa i movimenti di protesta a Homs e in altre città. In conclusione, da protagonista della primavera araba, la Siria sta vivendo invece un triste autunno dei diritti umani.