Dal punto di vista dell’innovazione, il Piemonte si rivela stranamente poco fertile per quei giovani imprenditori desiderosi di aprire un’impresa e lanciarsi sul mercato
I dati della quarta edizione dell’Osservatorio sulle 'start up' innovative raccontano un Piemonte privo di fermento. Anzi, lo vedono come un gigante seduto sugli allori, frutto del capitalismo del secolo scorso. Il Pil piemontese (ultimi dati disponibili, quelli del 2016) equivale a 131 miliardi di euro, di cui il 40% è attribuibile a imprese nate prima del 1900. Tra le aziende più longeve non si possono non citare la ‘Martini & Rossi’ e la ‘Caffarel’, gli istituti di credito e le assicurazioni locali, i ‘Fratelli Piacenza’ insieme ad altri storici lanifici biellesi, senza naturalmente dimenticare la Fiat, nata nel 1899. L’ultimo periodo storico di vitalità del tessuto economico piemontese risale al trentennio 1970-2000, in cui le imprese neonate hanno contribuito per lo 0,9% del Pil per ciascuna annata. Tre decenni in cui sono state fondate le basi per produrre quasi un terzo (27%) del Pil contemporaneo. La regione, dal punto di vista dell’innovazione, si rivela dunque un terreno non fertile per giovani imprenditori desiderosi di aprire un’impresa e lanciarsi sul mercato. I dati rivelano, infatti, che a livello assoluto il Piemonte risulta la quinta regione italiana per numero di ‘start up’: sono 502 attività innovative iscritte nella sezione speciale del Registro Imprese. Davanti ci sono: Lombardia (2419); Lazio (1065); Emilia Romagna (901); Veneto (876); Campania (751). Una performance ancora peggiore, se si tiene conto del rapporto con la popolazione attiva compresa tra i 23 e i 55 anni, in cui il Piemonte sprofonda in tredicesima posizione, con un indice di densità pari a 1,8 rispetto al 20 del Lazio, al 19 dell’Emilia Romagna e della Basilicata e al 15 della Lombardia. La missione delle ‘start up’ innovative e tecnologiche è duplice: aumentare la produttività totale delle risorse, che rappresenta un fattore di crescita dell’economia generale e sostituire, modernizzando, il tessuto delle imprese. In Italia, le ‘start up’ innovative, dopo sei anni di esistenza dell’elenco speciale, rappresentano lo 0,67% delle società di capitali. La qual cosa comporta che, allo stato attuale, la loro generazione non può assolvere alla funzione sostitutiva del ‘turn over’ della manifattura e dei servizi, ma a una funzione integrativa e mista (si consideri, per esempio, che il tasso di mortalità lorda è dell’8,2% in Italia e del 7,8% in Piemonte). C’è poi un problema legato all’oggettiva difficoltà di crescita: le ‘start up’ del nord’Italia hanno ricavi medi di 52 mila euro (in Piemonte è inferiore, con 38 mila) e sono cresciute, in due anni, di 43 mila euro (29 mila in Piemonte). Il valore aggiunto lordo è di 58 mila euro (23 mila in Piemonte). La posizione finanziaria netta è negativa per -11 mila euro (-9.900 in Piemonte), ma assorbe solo il 12% del patrimonio netto, che vale, in termini generali, 86 mila euro. I tre quarti del campione rappresentano un ‘cluster’ di aziende di dimensioni decisamente piccole, finanziate solo dai fondatori in proporzione a progetti relativamente poco costosi. Nonostante questo, l’indagine mette in luce che il ‘quarto quartile’ delle ‘start up’ ha dimensioni maggiori (i ricavi superano i 140 mila euro e sono cresciuti di almeno 110 mila euro negli ultimi due anni). Questa fetta di ‘start up’ ha già una redditività operativa del capitale positiva (7%) e sono quelle che hanno maggiore possibilità di sopravvivenza a medio termine. In tutto ciò, il quadro delle ‘start up’ piemontesi esistenti le vede piccole, finanziate principalmente dai fondatori e dai soci e una su quattro ricorre ad agevolazioni pubbliche. Al contempo, lamentano mancanza di liquidità e difficoltà ad approcciare nuovi investitori: fattori determinanti per spiegare la fatica d’inserirsi nel mercato nazionale prima ancora che in quello globale. Per quanto riguarda i settori di innovazione, non esiste un tema dominante nelle innovazioni che gli ‘startupper’ piemontesi vogliono proporre al mercato, anche se i filoni dell’Ict (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ndr) sono piuttosto ‘gettonati’. Spicca, piuttosto, l’assenza di alcuni filoni: non vengono quasi sfruttati gli ‘open data’ (letteralmente: dati aperti, accessibili a tutti, ndr) così come la ‘blockchain’, che al di là delle avventurose applicazioni nell’ambito delle quasi monete private, potrebbe avere altri sviluppi. Anche l’e-gov (il sistema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ndr) non è nel mirino degli ‘startupper’, che puntano al mercato privato, con una leggera prevalenza verso il B2B (il commercio interaziendale, ndr). Insomma, questo quadro non proprio rassicurante potrebbe spiegare perché il dibattito sul Tav veda l’opera non decollare da tanti anni, al netto dei problemi ulteriori che esulano dal tema presente. Il Piemonte vive ancora di rendita, potendo contare su un glorioso passato, ma di prospettive per il futuro ce ne sono ben poche. E questa non può che essere una brutta notizia per un territorio che, forse più di altri, ha bisogno di far ripartire la propria economia.