Le appassionanti vicende di una delle famiglie più prestigiose della capitale d’Italia nelle diverse generazioni succedutesi nei decenni, a dimostrazione di una città sempre viva nella sua ricchezza artistica, politica e culturale
Il padre di Francesco Trombadori è stato Antonino, il libraio, incisore e artigiano delle statuine da presepe, che sposò Concetta Randazzo. Egli gestiva a Siracusa la libreria di famiglia, ‘L’Emporio del buon gusto’, a Ortigia (Sr), nella via Maestranza all’angolo con via Roma. E dopo la nascita di Francesco, ebbe altri tre figli: Vincenzo (1890-1959); Giuseppe nel 1896, chiamato Peppino, antifascista che morì a Milano nel 1939 in conseguenza agli stenti cui era stato costretto durante il confino; e Gaetano Trombadori (1900-1994), critico letterario e professore universitario di lingua e letteratura italiana all'Università ungherese di Debrecen - dal 1940 al 1945 e dal 1947 al 1950 – e, dal 1956 in poi, professore nelle Università di Salerno, Palermo e Milano. Nella sua adolescenza, Francesco Trombadori frequenta la scuola tecnica ‘Archimede’. Per passione, si dedica e si specializza nelle pratiche di rilegatoria dei libri, a cuoio e a pergamena. Francesco era nato a Siracusa, il 7 aprile 1886. Resta affascinato dalla immensa tela con la tematica del ‘Seppellimento di Santa Lucia’, capolavoro di Michelangelo Merisi del 1608, esposto nella chiesa di Santa Lucia alla Badia di Siracusa. Nel 1907, dalla Sicilia si trasferisce a Roma, dove segue i corsi dell'Accademia di Belle Arti e la scuola libera del nudo. Tra i suoi maestri c'è Giuseppe Cellini e, tra i compagni di corso, troviamo Cipriano Efisio Oppo, Amerigo Bartoli, Mario Broglio e Virgilio Guidi. È del 1911 la sua prima esposizione personale, nel foyer del Teatro Massimo di Siracusa. Nel 1913 inizia a frequentare lo studio di Enrico Lionne (1875-1921), confermando la propria tendenza verso la pittura divisionista e la scomposizione del colore, allora molto in voga a Roma. Nel 1915 parte per la grande guerra: nell'agosto del 1916 viene ferito sul Podgora nell'azione bellica per la presa di Gorizia. Alla fine del conflitto, Francesco Trombadori è nuovamente a Roma e si ricongiunge a Margherita Ermenegildo, sposata nella chiesa di Santa Maria in Transpontina nel luglio del 1916, figlia del direttore d’orchestra del municipio di Siracusa. Il 10 giugno 1917 nacque il figlio Antonello e, nel 1929, la figlia, Donatella Trombadori. In questi anni, Francesco frequenta i compagni della Terza Saletta del Caffè Aragno. È in contatto con l’ambiente di Anton Giulio Bragaglia, il regista di film futuristi e fondatore del Teatro sperimentale degli Indipendenti, per la produzione di teatro d'avanguardia. Lo si nota anche per una serie di ritratti in fotodinamica e per la sua presenza nell'Index Rerum Virorumque Prohibitorum, pamphlet satirico diretto da Bragaglia. Il rapporto di stima proseguirà anche quando l’artista entrerà nella sua fase ‘neoclassica’. Alla fine del 1919 ricevette in assegnazione lo Studio n. 24 a villa Strohl-Fern, dopo la morte precoce di Umberto Moggioli (Trento, 1886 – Roma, 26 gennaio 1919), pittore della scuola di Burano. In questa villa si trasferì con la famiglia. Villa Strohl-Fern fu poi acquistata nel 1879 dal nobile alsaziano Alfred Wilhelm Strohl (1847-1927), il quale aveva interessi artistici e talora indugiava nel mecenatismo. Fern non è un cognome ma un aggettivo tedesco, "fern", che significa 'libero', lontano dalla patria, così come si considerava Alfred Wilhelm Strohl. Nel 1921, Francesco Trombadori viene nominato professore di disegno all'Istituto Tecnico di Civitavecchia e partecipa alla prima Biennale di Roma. Lavora anche come illustratore per il libro di novelle di Henry Barbusse: ‘L'uomo e la donna’. Nel 1922, presso la società ‘Amatori e Cultori’ delle Belle Arti presenta ‘Siracusa mia!’, che può essere considerato il punto di arrivo del suo periodo divisionista. Nei primi anni venti del secolo scorso, Francesco Trombadori dedica molto tempo allo studio della pittura antica, cercando una via personale nel difficile rapporto tra avanguardia e tradizione. La II Biennale di Roma del 1923 fu l'occasione per confrontare il suo lavoro con quello di altri 'compagni di strada', da Antonio Donghi a Carlo Socrate e Nino Bertoletti, con i quali espone in una sala di intonazione 'neoclassica' e purista. Nel 1924 espone alla Biennale di Venezia e al ‘vernissage’ di venti artisti italiani presso la Galleria Pesaro di Milano. Alla III Biennale di Roma del 1925 espone nella stessa sala di Giorgio De Chirico, al quale era legato da un rapporto di reciproca stima e amicizia, di Antonio Donghi, Francesco Di Cocco e Filippo De Pisis. Sempre nel 1925, inizia la sua attività di critico d’arte pubblicando su ‘Epoca’ due scritti dedicati a Giovanni Fattori, l’artista più influente tra i pittori ‘macchiaioli’ e, alla morte di Armando Spadini, scrive per il giornale ‘L'Opinione’ un testo critico sulla situazione artistica italiana. Fin dalla primavera del 1925, Francesco Trombadori è in contatto con la giornalista e critica Margherita Grassini Sarfatti e con il comitato organizzatore del ‘Novecento italiano’, che oltre a invitarlo come artista, lo incaricano di propiziare la partecipazione di altri esponenti dell’ambiente romano, da Aldo Bandinelli (1897-1977) a Giorgio De Chirico, da Amerigo Bartoli Natinguerra al giovane Edolo Masci fino ad Antonio Donghi, la cui pittura venne assorbita dal nipote, Duccio Trombadori. Nel febbraio del 1926 si inaugura a Palazzo della Permanente di Milano la prima mostra del Novecento italiano, alla quale partecipa anche Francesco Trombadori con tre opere. Anche più interessante per i risvolti romani del novecento è la mostra dei ‘Dieci artisti del Novecento italiano’, che viene presentata dalla critica d’arte Margherita Grassini Sarfatti nell'ambito della XCIII Esposizione di Belle Arti della società ‘Amatori e Cultori’. Il nucleo è rappresentato da Virgilio Guidi e Carlo Socrate, Gisberto Ceracchini e Riccardo Francalancia. In questa sede, Francesco Trombadori presenta quattro tele: due paesaggi e due nature morte. Nella sua pittura inizia a manifestarsi un nuovo interesse per il paesaggio, frequentemente esposto nelle mostre nazionali ed internazionali. Nel 1931 partecipa con tre opere alla prima ‘Quadriennale’, pubblicando anche su ‘Gente nostra’ varie recensioni, assai utili per comprendere le sue preferenze nel panorama italiano. Ricordiamo, inoltre, che nel 1930, Francesco Trombadori aveva già recensito con attenzione anche la mostra di due giovani ‘espressionisti’: Mario Mafai e Gino Bonichi, quest'ultimo noto come Scipione Bonichi o semplicemente, Scipione. Prosegue la sua partecipazione alle mostre del ‘Novecento italiano’, che in quel periodo si tengono soprattutto all'estero (Buenos Aires 1930; Stoccolma 1931; Oslo 1932). Nel 1931 partecipa con un dipinto alla Exhibition of Contemporary Italian Painting nel museo di Baltimora (Usa). Una piccola personale viene accolta anche dalla Biennale di Venezia del 1932. Tra le altre mostre dei 'ruggenti anni ’30' del secolo scorso, possiamo ricordare le varie edizioni della Biennale di Venezia e della Quadriennale di Roma, alle quali partecipa sempre con piccoli gruppi di opere. Nel 1938 appare la prima monografia: quaranta opere introdotte da un testo di Adriano Grande nella rivista genovese ‘Circoli’, diretta proprio dal direttore del giornale, Adriano Grande, nonché animata, tra gli altri, da Elio Vittorini, Leo Longanesi, Salvatore Quasimodo e Sandro Penna. Come si può ben comprendere, siamo nel 'cuore' della cultura italiana del novecento. La sua collaborazione a ‘Circoli’ è molto intensa e qualitativamente alta, con articoli che spaziano dalla recensione libraria alla pittura del seicento. All'inizio degli anni '40 c'è da segnalare un momento abbastanza curioso, rappresentato dai quadri dipinti per il salone dell’Aeronautica alla Biennale di Venezia del 1942, in seguito esposti anche alla Mostra dell'arte aeronautica della Galleria di Roma (1943): una evasione dal repertorio consueto, ma forse anche un segno delle difficoltà di lavoro nel periodo bellico. L'ultimo periodo della guerra è particolarmente duro: nell'aprile 1944 viene arrestato dalla banda Koch, che operava a Roma al servizio dei tedeschi e dei fascisti. Viene relegato nella Pensione Jaccarino per strappargli notizie del figlio Antonello, ricercato dalle SS. Dopo la guerra, Francesco Trombadori inizia un nuovo periodo pittorico dedicato a una originale e raffinata lettura del paesaggio romano in chiave 'neometafisica'. Tra le mostre possiamo ricordare le personali alla ‘Galleria del Pincio’ (Roma, 1951) e alla ‘Tartaruga’ di Plinio De Martiis (Roma, 1955). Le sue 'Vedute di Roma' furono raccolte, nel 1958, in una personale alla ‘Galleria del Vantaggio’ di Roma, al ‘Centro San Babila’ (Milano, 1960) e alla ‘Galleria Russo’ (Roma, 1961). Dal 1950 in poi torna sempre più frequentemente in Sicilia, nella sua Siracusa. Francesco Trombadori muore a Roma il 24 agosto 1961 nel proprio studio, a pochi mesi dalla sua ultima mostra personale. Nel 1983, Maurizio Fagiolo e Netta Vespignani, con Antonello e Donatella Trombadori danno vita all’Archivio della Scuola Romana. Dal 1985, sempre a Roma, nella Villa Strohl-Fern vi è lo Studio n. 12 di Francesco Trombadori, l’archivio personale con alcuni quadri, gli appunti e i suoi libri. Dal 1991, lo studio del pittore è aperto al pubblico, agli studenti di ogni ordine e grado e agli studiosi. A Villa Strohl-Fern, attualmente di proprietà dello Stato francese e sede del Lycée Chateaubriand, è ancora oggi visitabile lo studio che il pittore allestì in un ampio spazio verde, così come gli altri angoli di pittura degli artisti dell’epoca. Ed è tra i pochi studi d'artista vincolati dal ministero per i Beni e le attività culturali. Oggi, rimane il fascino dell’ultima e unica testimonianza della vita artistica e culturale che si è svolta per oltre un secolo nel luogo magico di Villa Strohl-Fern. Il figlio di Francesco Trombadori, Antonello, nato a Roma il 10 giugno 1917, è stato un giornalista, critico d'arte, poeta in dialetto romanesco e politico italiano di primo piano, ma soprattutto un partigiano combattente nelle ‘Brigate Garibaldi’. Amico fraterno di Renato Guttuso, sin da giovane collabora con alcune riviste quali ‘La Ruota’, ‘Primato’, ‘Città’, ‘Corrente’, ‘Cinema’. Studia prima al liceo Terenzio Mamiani, in viale delle Milizie, poi al Visconti, nella piazza del Collegio Romano, frequentato anche da Paolo Bufalini e Giulio Andreotti. Iscritto ai Gruppi universitari fascisti, partecipa ai Littoriali della cultura e dell'arte di Napoli (1937) e di Bologna (1940). Successivamente, dopo una iniziale simpatia per il liberalsocialismo, in quel periodo divenne amico di Bruno Zevi e si avvicina rapidamente al Partito comunista clandestino, al quale si iscrive dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Ufficiale dei bersaglieri, Antonello Trombadori viene inviato sul fronte greco-albanese, dove viene ferito e, per tale motivo, rimandato nella capitale in licenza di convalescenza. A Roma, nel 1941, viene arrestato con altri studenti e operai per avere organizzato moti all'Università La Sapienza contro la guerra ed è condannato al confino dal Tribunale speciale. Benito Mussolini in persona gli propone la possibilità di proscioglimento da ogni accusa, per via dell'importanza della famiglia, in caso di pentimento pubblico. Ma Antonello Trombadori rifiuta ogni compromesso e viene confinato a Carsoli (Aq). Alla caduta del fascismo, Trombadori rientra a Roma. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e la fuga dei Savoia, in assenza di comandi militari partecipa alla disperata difesa popolare della capitale dall'occupazione tedesca a Porta San Paolo, dopo aver tentato di distribuire armi per la resistenza agli ordini di Luigi Longo e con il sostegno del generale Giacomo Carboni. Durante l'occupazione tedesca della 'città eterna' costituisce i Gap-Gruppi di azione patriottica, formazione partigiana incaricata di effettuare attentati e sabotaggi contro il nemico. Arrestato il 2 febbraio 1944 dalle SS, Antonello Trombadori viene imprigionato prima a via Tasso e poi a Regina Coeli. Riesce a scampare alla decimazione ordinata da Herbert Kappler, di 335 tra civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni, trucidati il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine, grazie all'azione del medico socialista del carcere, Alfredo Monaco, che lo ricovera temporaneamente in infermeria. Successivamente, è inviato al lavoro forzato sul fronte di Anzio, dove però fugge, riprendendo l'attività clandestina partigiana fino al giorno della Liberazione di Roma, il 4 giugno 1944. Per i suoi meriti di combattente gli viene conferita la medaglia d'argento al valor militare. Dopo la Liberazione, Antonello Trombadori organizza la mostra: 'L'arte contro la barbarie'. Nel 1945 presenta l'album di disegni di Renato Guttuso intitolato 'Gott mit uns' e, nello stesso anno, è aiuto regista di Roberto Rossellini e Carlo Lizzani per il capolavoro del cinema neorealista 'Roma città aperta', con Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Si sposa con Fulvia Trozzi, figlia dell’avvocato e parlamentare socialista Mario Trozzi e ha due figli: Duccio e Lucilla; più tardi avrà tre nipoti: Cecilia (1976), Ortensia (1979) e Charlotte (1991).
Nel 1956, Antonello Trombadori risulta eletto consigliere comunale di Roma nelle liste del Pci, riconfermato alle successive elezioni del 1960, 1962 e 1966. Nel 1967 è inviato speciale in Vietnam per conto del quotidiano ‘l'Unità’. Nel 1968 viene eletto in parlamento ed è confermato nelle quattro legislature successive come deputato della Repubblica italiana, dal 5 giugno 1968 al 1º luglio 1987. Dopo la contestazione giovanile del ‘68, polemico con la deriva dell'estremismo della sinistra extra-parlamentare, torna progressivamente su posizioni sempre più vicine al liberalsocialismo delle origini. E si avvicinerà alle posizioni 'filosocialiste' di esponenti comunisti come Paolo Bufalini e Giorgio Napolitano. Dal 1976, anno in cui Bettino Craxi diventa segretario del Partito socialista italiano, Antonello Trombadori inizia una graduale riflessione che lo porterà, nei primi anni '90, a dichiararsi "non più comunista" e a votare esplicitamente “per il Psi del garofano rosso”. Anche prima di questa 'svolta' personale, Trombadori era ormai d'accordo con Bettino Craxi sulla riforma della scala mobile, iniziata con il decreto di San Valentino. E riserverà l'unica critica al segretario socialista durante il rapimento di Aldo Moro, non condividendo la sua proposta di 'trattativa' con le Brigate Rosse. In ogni caso, si ritiene che "in Trombadori non c'era traccia dell'antisocialismo tipico della classe dirigente comunista ‘berlingueriana’ e che Craxi esercitasse su di lui un certo fascino". Antonello Trombadori morì a Roma il 19 gennaio 1993. Per avere una testimonianza diretta su questa prestigiosa famiglia della cultura capitolina, abbiamo incontrato Duccio Trombadori, il figlio di Antonello. Nato a Roma nel 1945, giornalista di politica e cultura, Duccio ha lavorato a lungo per il quotidiano ‘l’Unità’ e per ‘Rinascita’. Critico d’arte di ragguardevole statura, ha collaborato con la Rai, scrive su quotidiani e settimanali nazionali, dirige la rivista ‘Quadri & Sculture’ e svolge attività sindacale come capo ufficio stampa della Cisl.
Duccio Trombadori, quali ricordi ha della sua infanzia e degli affetti familiari?
“Sono nato il 28 febbraio 1945. Antonello Trombadori e Fulvia Trozzi, mio padre e mia madre, si sposarono subito dopo la liberazione di Roma da parte delle truppe angloamericane. I miei genitori erano stati partigiani, erano comunisti pieni di ottimismo e di slancio ideale verso un futuro pieno di promesse. I miei ricordi sono piccoli bagliori analoghi di intensa felicità. Ricordo che mi teneva in braccio un soldato americano di nome Lee, che poi sposò Alda, una fidata e affettuosa cameriera di casa nostra: c’era tanta familiarità e simpatia solidale con i nostri liberatori americani. Poi, verso i quattro-cinque anni d’età il mondo precipitò nella ‘guerra fredda’… E tutto cambiò. I miei si trincerarono attorno alla difesa, senza se e senza ma, dell’Urss, ‘fortezza assediata’. E si toccava con mano in casa un senso di contrapposizione morale intransigente. Era condannato tutto ciò che era ‘americano’, dai film western ai fumetti di Disney, alla Coca Cola al chewing gum: io non capivo bene perché, ma assecondavo i loro precetti, anche se poi la nonna, di soppiatto, mi conduceva a vedere i film di Paperino e Topolino. Anche a scuola, d’altra parte, si era stabilito un clima contrapposto di paura e diffidenza contro i ‘comunisti’, appena scomunicati da Pio XII e demonizzati in quanto ‘mangiatori di bambini’: un’atmosfera da ‘caccia alle streghe’ che ricordo bene e che mi fece soffrire e alla quale mi ribellavo con disprezzo. Poi, dopo, con la traumatica rivelazione di Krusciov sul dispotismo di Stalin nel 1956, molte cose cambiarono nella vita di famiglia. E anche per me. Entravo nella prima adolescenza con i turbamenti, le ansie e le gioie di tutti gli altri coetanei. Un ragazzo inserito nella ‘normalità’, più o meno”.
Come è stata la vostra adolescenza a Villa Strohl-Fern?
“La Villa Strohl-Fern allora era un luogo magico, introvabile e irripetibile. I miei nonni paterni ci vivevano in una bohème che durava dal 1922. Lì erano cresciuti mio padre Antonello e mia zia Donatella; la nonna faceva il bucato in una fontana dirimpettaia piena di ninfee e di ranocchie; mio nonno si appartava e dipingeva i suoi quadri. Il parco era abitato da decine di artisti, scultori, pittori, orafi, incisori con le loro famiglie. In mezzo al folto dei pini o dei bambù spiccavano i busti delle sculture in terracotta, noi giocavamo in bande con le cerbottane da ragazzini; le ragazzine correvano e facevano i loro giochi danzanti: era come in una campagna tutta per noi piantata nel cuore di Roma. Io, poi, mi accucciavo di tanto in tanto a osservare in silenzio mio nonno quando disponeva il colore sulla tela. Lui non permetteva a nessuno di disturbarlo mentre dipingeva, ma visto il mio interesse, mi lasciava guardare, silenziosamente compiaciuto. Villa Strohl-Fern, oggi, non è più quella di prima, ma lo studio Trombadori è diventato una ‘casa-museo’, che ricorda un passato di grande fascino artistico e culturale. Per me è soprattutto il cuore della memoria di famiglia, dei primi giochi, dei primi amori”.
Dopo tutte le avanguardie, dall’impressionismo al surrealismo fino al divisionismo, quali sono stati, secondo lei, i caratteri della pittura di questi ultimi anni?
“La pittura è sempre stata e sarà, essenzialmente, una questione di valori cromatici, di sintesi di forma-colore, di sguardo personale sul mondo, che può essere depositato come meglio si crede sulle cose viste o immaginate: suddividere le manifestazioni espressive in correnti di gusto o di poetica non è mai molto utile per apprezzare davvero la qualità di un artista. Al di là degli ‘ismi’, bisogna saper guardare al cuore di un autore, apprezzare l’intensità della sua espressione. L’esercizio migliore della critica non è tanto nella classificazione di un’opera in questo o quel ‘genere’, ma nella sua interpretazione e descrizione, oltre che nella sua ‘lettura interna’ (i riferimenti morali, storici, culturali, religiosi, che l’opera stessa implica o può suggerire). Da almeno tre decenni viviamo nella temperie del gusto variamente definito ‘post-moderno’, vale a dire di un eclettismo stilistico che ottiene pregevoli risultati, in più occasioni, con il difetto, tuttavia, di perdere l’intensità del messaggio visivo. L’eclettismo (cioè l’agglomerato di tecniche, indirizzi poetici, materiali estetici e via dicendo) è in genere segno di un’epoca indecisa, perché ricca di motivazioni contrastanti. È un limite, ma anche una fase preparatoria per un salto culturale. È quello che si attende dall’evolvere del gusto e, soprattutto, dall’emergere di personalità capaci di effettuare sintesi innovative. Oggi, questo ancora non si vede, ma io sono ottimista. L’Italia pullula di sinceri testimoni della nobile arte pittorica: sono certo che, dal loro impegno, nascerà qualcosa di buono”.
Quanto ha contribuito alla sua arte pittorica l’influenza dei dipinti di Antonio Donghi?
“Io mi limito a seguire annotazioni espressive che si condensano nell’arte di far parlare il ‘paesaggio italiano’ come sintesi di forma-colore. Non so quanto sia riuscito nel mio intento: più in là non vado. I miei riferimenti visivi? Certamente ho guardato Antonio Donghi, Mario Mafai e altri della ‘scuola romana’, come soprattutto i dipinti di mio nonno, Francesco Trombadori. Restano tuttavia modelli ideali i paesaggi di Carrà e Morandi, la lezione dei grandi toscani Soffici e Rosai, tutti autori di un paesaggismo tanto veridico, quanto idealizzato. Ciò che, nel mio piccolo, avrei l’ambizione di fare anche io”.
Tornando alle vicende della sua famiglia, come venne vissuta la tragedia di Aldo Moro tra le vostre mura domestiche?
“Fu un trauma terribile: l’avveramento di un destino fatale. Aldo Moro ci apparve, a me e a mio padre, come una vittima sacrificale, il ‘capro espiatorio’ di un qualcosa che si voleva avvenisse, ma che non doveva avvenire: l’annunciato ingresso del Pci di Enrico Berlinguer nell’area di governo. Posso solo dire che, in quei giorni, pensammo a come poter salvare Moro e a chi poteva stare ‘dietro’ ai sequestratori. Pensai al folle estremismo di sinistra, che aveva sottovalutato la pericolosità delle Brigate Rosse e il loro tentativo di gettare l’Italia nella guerra civile, pregiudicando l’avanzata graduale e democratica del Pci, in previsione del suo inserimento nel ‘campo occidentale’. Fui, allora, sostenitore della massima fermezza nei confronti dei rapitori, senza concedere spazi a nessuna trattativa. Forse sbagliavo: si sa come sono andate le cose. Non so ancora dire con precisione se dietro il rapimento e l’assassinio di Moro ci fossero manovre segrete di potenze straniere: forse si, forse no. Fatto sta che con la morte del presidente della Dc, la politica italiana venne stravolta. E la marcia del Pci attraverso le istituzioni democratiche si bloccò, con il ritorno a un’opposizione dai toni settari e antiriformisti”.
Che ricordi ha dell’amicizia politica, o meglio dell’affinità politica, tra suo padre Antonello e Bettino Craxi?
“Mio padre Antonello, fin dagli anni ’60 si era dichiarato favorevole all’incontro sempre più ravvicinato tra comunisti e socialisti, in nome di un’evoluzione socialdemocratica del comunismo italiano. Questa posizione si accentuò quando Berlinguer, in nome della ‘questione morale’, si lanciò in una polemica senza quartiere contro i Partiti del centrosinistra e contro il Psi di Craxi in particolare. Ricordo che, tra mio padre e Craxi non c’era amicizia, ma una corrente autentica di simpatia e affinità politica. A partire dal comune amore per l’opera e la figura di Giuseppe Garibaldi, dei cui cimeli e scritti Bettino Craxi era un collezionista, come anche mio padre. In proposito, tra i due avvennero scambi di omaggi garibaldini, con dedica reciproca sulle ‘memorie’ del Generale in camicia rossa, sull’impresa dei Mille e altro ancora”.
Come sta affrontando il complesso periodo ‘politico’ che coinvolge il mondo intero?
“Dopo avere operato come giornalista militante del Pci fino al 1991, sono poi approdato alla Cisl, sindacato nel quale ho lavorato per venti anni condividendone le impostazioni riformiste in materia di contrattazione e di autonomia dal sistema politico. Resto tuttavia in attesa della formazione di una convincente forza socialista, democratica e liberale capace di rappresentare il mondo del lavoro nel suo insieme e affrontando tutte le difficoltà economiche e sociali poste in Italia e in Europa dalla crescente integrazione globale. In tal senso, mi pare abbia tentato di dare una risposta il Partito democratico, ma la ritengo, ancora oggi, una risposta abbozzata, imprecisa, piena di domande irrisolte, politiche, ideali e culturali. Spero che questa esigenza venga soddisfatta nel futuro: la parola ‘socialismo’ non è una parolaccia. Bisogna trovare il modo di poterla pronunciare ancora con coraggio e ottimismo”.
Una riflessione sull’attuale condizione culturale del Paese: lei è pessimista sul futuro dell'Italia?
“Vince su tutto il ‘presente irredimibile’ del web, di internet e dei circuiti informativi e mediatici. È il nuovo territorio su cui si fondano le sommatorie sociologiche delle ‘identità culturali’: costumi, opinione, morale corrente, etica. Le élite di pensiero non sono morte: si sono eclissate e non tengono più il campo della informazione culturale, che è passata nelle mani dei conduttori televisivi o di altri. È il nuovo modo di esprimersi dello ‘spirito pubblico’: lo si può disprezzare, ma non esorcizzare. Tuttavia, io non sono pessimista: ogni generazione incontra il mezzo di comunicazione e i ‘sistemi di valore’ che quello stesso mezzo impone. Ci vorrà tempo per attraversare questa esperienza e ridimensionarne la portata informativa. Ma il tempo è galantuomo e, alla fine, saprà distinguere il ‘grano’ dal ‘loglio’. Ve l’ho già detto che sono un ottimista”?
NELLA FOTO QUI SOPRA: DUCCIO TROMBADORI IN UNO SCATTO DI PINO MANNARINO
AL CENTRO: UN'OPERA DELLA SERIE 'PICCOLE PITTURE'
PIU' IN ALTO: L'OPERA 'CASA AL MARE'
IN APERTURA: L'ARTISTA DURANTE UNA GIORNATA DI RELAX