È uscito di recente il libro di Stefano de Luca, Segretario nazionale del Partito liberale italiano, intitolato “Mi chiamavano onorevolino: profilo di un liberale siciliano”, edito da Rubbettino. Si tratta di un’analisi autoironica di un protagonista della nostra vita politica che ha potuto osservare ‘dal di dentro’, negli anni del proprio ‘cursus honorum’, la deriva politica verso la quale la nostra democrazia si è, purtroppo, incamminata: quella della ‘videocrazia plebiscitaria’. Abbiamo perciò incontrato questo esponente politico anche al fine di comprendere quale sia il percorso più corretto in grado di riportare il nostro Paese sulla ‘via maestra’ di una liberaldemocrazia più matura, meritocratica, di qualità.
Onorevole de Luca, può parlarci innanzitutto, in termini introduttivi, di questo suo libro, nel quale lei ha sostanzialmente ripercorso la sua carriera politica che, diciamolo, è stata più che ragguardevole, dato che lei è stato sottosegretario alle Finanze in svariati governi, nonché parlamentare per numerose legislature?
“Principalmente, direi che ho voluto ripercorrere la mia vicenda politica, il mio rapporto con la politica. Complessivamente, si tratta di un'autobiografia, ovviamente con un tono abbastanza autoironico: guai a prendersi troppo sul serio. Il titolo stesso lo dice: “Mi chiamavano onorevolino”. In sostanza, ho cercato di mettere in rilievo i tre aspetti più importanti della mia vita: quello della mia passione, della mia “storia d'amore” con il liberalismo e la cultura liberale, quindi ovviamente con il Partito liberale italiano, congiuntamente alla mia ‘specialità’, cioè quella di esser nato sotto il sole della Sicilia, dunque della mia ‘palermitanità’, di cui ho trattato a lungo perché mi pare che sia, oltre a una caratteristica che mi contraddistingue, anche una cosa di per sé interessante da capire, da approfondire, da conoscere. Poi c’è un terzo filone: quello di alcuni accadimenti della mia vita privata, soprattutto di questa mia straordinaria coincidenza per cui, nato durante la guerra e, quindi, cresciuto nei primi anni dell’immediato dopoguerra, ho potuto vedere, da un lato, le macerie fisiche della distruzione di una guerra, insieme a quelle morali, di un'Italia che usciva dalla dittatura e, allo stesso tempo, l’entusiasmo per la ricostruzione, soprattutto la passione per la ritrovata democrazia, la partecipazione, il suffragio universale, per la prima volta esteso anche alle donne e così via. Naturalmente, ponendo tutto ciò in contrapposizione, o paragonandolo, a quel che abbiamo, invece, innanzi agli occhi oggi, che mi sembra, obiettivamente, molto meno affascinante: amara considerazione”.
Infatti, in un passo del libro lei scrive: “Oggi comincia a essere evidente che è stato avviato un processo di progressiva trasformazione della nostra democrazia in oligarchia plebiscitaria”. Questa è una frase lapidaria, pesante: le cose stanno così? Dobbiamo rassegnarci a questo scadimento della nostra politica? Dobbiamo proprio preoccuparci?
“Io credo di sì, ovviamente senza voler indulgere troppo al conservatorismo, poiché tutti gli anziani sono soliti affermare: “Ai miei tempi era meglio”. Di certo, io non posso non considerare come la modernità e, quindi, la necessità di possedere gli strumenti per la comunicazione di massa, in qualche modo sia stata forzata nel nostro Paese. Questo è un punto cruciale: la libertà di stampa, che è una delle classiche libertà sostenute dai liberali e che sono state alla base di tutte le rivoluzioni dell’800 e del ‘900, oggi è diventata o è stata trasformata in una sorta di libertà di fare violenza sull’utente. Mi riferisco, principalmente, all’effetto devastante della televisione rispetto alla stampa scritta, perché quest’ultima passa attraverso il filtro del cervello, mentre invece le immagini si appiccicano nella mente come francobolli su una busta. Ecco, io ho notato come questo invocare sempre l’espressione della volontà popolare come una sorta di ‘delega in bianco’ rappresenti un’attenuazione del concetto classico di democrazia: il popolo sceglie, ma poi controlla, partecipa, non rilascia deleghe in bianco. Chi conquista la maggioranza, oggi è un po’ come un qualcuno che ha vinto al ‘superenalotto’ e fa come gli pare. La democrazia, invece, è partecipazione e responsabilizzazione della società, di tutti i livelli della società, attraverso gli strumenti costituzionali, a partire da quello dell’equilibrio dei poteri”.
Quest’anno si festeggia la 150esima ricorrenza dall’unificazione italiana e del nostro Risorgimento. In questo processo storico, un ruolo fondamentale, forse quello più importante, è stato svolto proprio dalle forze politiche liberali. Quindi, ci sarebbe questo grande ‘plusvalore’ culturale dei liberali italiani che dovrebbe esser messo in evidenza. Tuttavia, c’è anche il problema che, da un punto di vista politico, i liberali, soprattutto nella fase post monarchica, sia quella della prima che dell’attuale seconda Repubblica, sono apparsi, spesso e volentieri, alquanto deboli: siamo di fronte a un ‘gigante’ filosofico, ma a un ‘nano’ politico?
“Questa sintesi è abbastanza realistica, purtroppo: è la presa d’atto di un dato storico. Probabilmente, i liberali o le idee liberali sono state sempre minoritarie, in Italia. Nel Risorgimento sono riuscite a prevalere, perché prevalse innanzitutto l’eroismo dei rivoluzionari, che hanno combattuto e hanno giocato una partita rischiosa, anche negli episodi più esaltanti, rischiando la propria vita e, in molti casi, perdendola. Per questo, devono essere onorati gli eroi accanto alla finezza politica di Cavour e di quel gruppo di uomini politici di cultura liberale che, tuttavia, erano espressione di un suffragio limitato. Nel momento in cui i liberali stessi, con giudizio, hanno introdotto il suffragio universale, hanno aperto essi stessi le porte ai grandi Partiti di massa. Mi riferisco, da un lato, al primo dopoguerra, quello successivo alla prima guerra mondiale, in cui si diffuse un socialismo radicale, di sinistra marxista e, dall’altro, all'ingresso dei primi 100 parlamentari popolari. Tutto questo non dico che fu la causa che ha poi determinato il precipizio nel fascismo. Tuttavia, la debolezza parlamentare di queste due grandi forze di massa consentì al fascismo di dilagare, poiché un mondo marxista rivoluzionario e radicale e un mondo cattolico pervaso di integralismo ancora legato al ‘Sillabo’ di Pio IX non capirono che dovevano rimettere nelle mani di Giolitti il Paese e che dovevano trovare un punto di equilibrio con la cultura liberale”.
In questo delicato passaggio tra l’Italia liberale e quella delle ideologie, il compito politico del Partito liberale divenne perciò quello di una forza minoritaria con le funzioni di un ‘cugino’ avveduto e curioso rispetto ai grandi Partiti di massa?
“Sì, devo dire che questa definizione è molto corrispondente alla realtà, dal mio punto di vista. In effetti, nell’agosto del 1943, Benedetto Croce volle ricostituire a Bari il Partito liberale. Egli stesso, uomo ormai molto anziano, si rifiutò di assumere le funzioni di capo dello Stato, ma non si sottrasse alle sue responsabilità ed entrò a fare parte del Governo come ministro. E proprio Croce individuò nel Partito liberale italiano una funzione di coscienza critica della società, una sorta di ‘enzima’ che poteva consentire alla democrazia Italiana, che era stata commissariata da 20 anni di dittatura, di lievitare. Credo che il Pli, anche dopo Benedetto Croce e quei giorni gloriosi, negli anni successivi, mi riferisco a tutta la fase della prima Repubblica, abbia avuto un ruolo, ancorché minoritario numericamente, di stimolo, di provocazione, di proposizione. Purtroppo, quando è finita la prima Repubblica, la seconda ha poi tentato una ‘semplificazione’ del liberalismo che non è risultata possibile, perché il liberalismo o è un complesso sistema di concezione della vita, della società, dei rapporti anche tra le persone, non soltanto quelli istituzionali, oppure diventa un prodotto da supermercato il quale, come qualunque gioiello ‘falso’, luccica ma non brilla. In particolar modo, io temo ci sia stato un tentativo, purtroppo riuscito negli ultimi anni, di trasformare la parola liberale da ‘sostantivo’ ad ‘aggettivo’, facendone scadere il significato. Il pensiero liberale viene ormai concepito come sinonimo del liberismo economico o di generica libertà economica, piuttosto che una filosofia politica complessa e rigorosa come nei Paesi dove il liberalismo esiste, soprattutto quelli anglosassoni. Questo è dunque il vero filo conduttore di questa mia autobiografia che, certamente, come tutte le autobiografie, è anche un atto di ‘narcisismo’. Ecco perché ho cercato di attenuarla con l’autoironia del titolo: “Mi chiamavano onorevolino”. Mi piacerebbe che qualcuno comprasse il libro e scoprisse il perché, dato che, tra l’altro, c’è una ‘doppia lettura’ di questo titolo, all’inizio molto allegra, molto simpatica, che spiega molto bene questa mia passione per il mondo liberale fin dall’infanzia, insieme a una molto ‘amara’, alla fine, però anche questa abbastanza allegra. Nel complesso, ho cercato di non prendermi tanto sul serio da scrivere un’autobiografia autocelebrativa: sarebbe stata fuori luogo. Anzi, il risultato finale mi sembra molto autoironico e, tutto sommato, abbastanza gestibile, poiché ho inserito episodi della mia vita anche confessandomi, o addirittura prendendomi in giro. Non è il solito ‘mattone’ della storia di un uomo politico che si autoesalta. D’altronde, io ho la fortuna di ritenermi un uomo che ha avuto dalla vita forse più di quello che meritava. Quindi, sono molto soddisfatto”.
Nel suo libro, lei parla spesso di questo suo amore verso la politica, mentre i giovani d’oggi fanno un po’ fatica ad appassionarsi ad essa, poiché la coerenza di una volta sembra non esistere più...
“Beh, questa è la conseguenza di quella che è stata chiamata, con un’espressione che mi pare appropriata, la ‘videocrazia’: si è cercato di far credere che il bipolarismo, o addirittura il bipartitismo, fossero la strada della modernità. E si è cercato di dividere il mondo politico in due parti, con un’operazione che ha finito col mettere fuori campo, se non con l’uccidere, le vere tradizioni, i valori, le più autentiche radici culturali, tutto ciò che di positivo c’era nella politica, cancellando ogni genere e tipo di utopia. Senza utopia non ci può essere impegno dei giovani nella politica. Viceversa, sono state create una ‘curva sud’ e una ‘curva nord’, due tifoserie contrapposte: è chiaro che tutto questo abbassa notevolmente il livello di qualità della politica, perché la tifoseria è un fatto dello stomaco, istintivo, non culturale e razionale”.
(intervista tratta dal sito www.laici.it)