Lo stile narrativo di Donatella Di Pietrantonio sorprende il lettore ponendolo di fronte alla tragedia del post terremoto de L’Aquila dell’aprile 2009, trascinandolo nel disorientamento traumatico della lenta ricostruzione di una città letteralmente ingoiata tra le viscere della Terra
Mentre impazza la polemica sullo ‘Strega’, grazie soprattutto alla rivista ‘Satisfiction’ che ne ha scoperto i lati oscuri, gli autoplagi e i soliti giochi di palazzo, squarciando finalmente il velo dei giurati di concorsi che i libri non li leggono, noi, che giuriamo di non essere giurati e che siamo soliti leggere i libri veramente, rimaniamo stupefatti quando, in mezzo tanta 'letteratura-spazzatura', troviamo un romanzo che penetra nelle ossa, fino alle fibre più intime, facendoci urlare di dolore e di condivisione. Questo l’effetto prodotto da ‘Bella mia’ (Elliot Edizioni) di Donatella Di Pietrantonio, alla sua seconda esperienza narrativa dopo l’esordio, fortunatissimo, di ‘Mia madre è un fiume’, edito da Einaudi. Il romanzo, edito dalla romana Elliot e pienamente degno di tale nome, non è rientrato nella 'rosa' dei cinque finalisti dello ‘Strega’. La qual cosa, a giunti a questo punto, garantisce sull’effettiva qualità del libro, che siamo certi non sia stato neanche aperto dai quattrocento lettori della domenica, visto che una di questi ci ha confessato di non conoscerne neppure il titolo. E Dio solo sa cos’ha perso. A cinque anni di distanza dal terremoto de L’Aquila, avvenuto all'alba del 6 aprile 2009, molti hanno cercato di restituire alla carta la frantumazione, fisica e psicologica, di una città scomparsa dentro a un boato, letteralmente risucchiata tra le viscere della Terra. Soltanto Donatella Di Pietrantonio ha saputo creare, da quella tragedia, un romanzo magistrale, che racconta del dolore, quello arcaico, ancestrale, ineludibile: il dolore di vivere, già connaturato all’umana specie, che diventa impossibilità in condizioni estreme, quando l’urlo viene dall’utero della Terra, frantumando intere città e umane relazioni. Il terremoto non guarda in faccia nessuno. E i più sfortunati ci perdono la vita, lasciando nello smembramento intere esistenze. E’ quanto capita a Olivia, che rimane schiacciata nella sua casa, mentre si attarda a prendere qualche panno per vestire il figlio Marco, adolescente. E Caterina, che per senso di inadeguatezza aveva rinunciato alla maternità, si ritrova a fare i conti col nipote orfano, adolescente difficile, vittima del trauma. E’ proprio con l’immagine di quest’ultimo, chiuso nel proprio mutismo e incurante dei suoi molti brufoli, metafora del disagio adolescenziale, si apre il romanzo. Dal nulla del terremoto sorgono le figure di Caterina, voce narrante, gemella di Olivia, insieme a quella della nonna, ridotta a una larva per il dolore della perdita inconsolabile. Intorno a loro, altro dolore e disfacimento: quello di coloro che hanno perduto gli affetti più cari e che, oggi, vivono nei prefabbricati del ‘Progetto Case’, mentre la città muore e la gente quasi ci fa l’abitudine. Qualche critico, o sedicente tale, ha osservato malamente che la trama è esile: "Non succede quasi nulla". E cos’altro doveva succedere, di grazia? Il testo è la ‘cronaca interiore’ di una donna, Caterina, che annaspa in quella che fu la sua città - ‘Bella mia’ – scomparsa poiché ingoiata nel nulla. I problemi del presente, la responsabilità di elaborare il dolore, di riempire un vuoto incolmabile, la mancanza dell'altra parte di sé, la gemella forte e apparentemente felice, si mescolano a quelli di un passato in cui si era sentita sempre inferiore, inadeguata, in fondo ‘persa’. La sorella Olivia aveva infatti sposato proprio il ragazzo che lei amava, Roberto, oggi musicista di successo, che la suocera vede come il vero responsabile della morte della figlia: se non se ne fosse andato, Olivia a L’Aquila non ci sarebbe tornata. Padre inadeguato, uomo con un passato di dolore, non sostiene la situazione e il figlio Marco decide di vivere con la zia e la nonna. Meno male che arriva il cagnolino Bric, rimasto orfano del suo padrone, che ha tentato invano di svegliare in quella terribile notte del 6 aprile 2009, quando il tempo si è fermato. Quel terremoto è stato un vero 'finimondo', ma ha creato un'inusuale famiglia, dove tutti devono fare i conti con se stessi e con le proprie ombre, nel ‘tempo-zero’ della morte e della rinascita. La naturalezza, la schiettezza e la forza espressiva di questa narrazione dallo stile franto, ci mette in contatto diretto col dolore e la precarietà della condizione umana di fronte alla violenza della natura, che ‘leopardianamente’ si abbatte sull’uomo riducendolo a briciole di esistenze mutilate, maledette, sofferenti e, per fortuna, ancora vive. Almeno per porsi una domanda di senso: "Perché"? Questo è l’interrogativo che attraversa tutti, specialmente l’adolescente Marco: “Perché tanto dolore? Perché proprio mia madre e le madri dei miei compagni, invece, no? Perché proprio la mia casa”? Una casa nella quale il ragazzo spesso torna nonostante i divieti, in quella zona rossa nella quale si trincera una vita che urla, che desidera ardentemente riappropriarsi di sé e dei suoi ricordi. Tutto sembrerebbe da attribuire a quel maledetto boato che sembrava non finire mai. Ma la realtà è diversa, poiché il disagio era precedente: Caterina non è mai stata capace di essere felice, sempre subordinata alla parte forte di sé; e Olivia, il suo doppio, che poi così felice non era. Rimasta sotto le macerie, aveva creato con la fantasia una vita perfetta: un padre da manuale per suo figlio, un uomo in realtà ripiegato su se stesso, impossibilitato ad amare. Mentre gli intonaci cadono, l'autrice penetra nei cuori di chi ha perso la direzione. Eppure, c’è della ‘religio’ in questo romanzo, in cui tragedia e vita si mescolano sapientemente suggerendoci, da un momento all’altro, che la vita possa vincere ancora. Passaggi lirici ci accompagnano e non ci abbandonano alla fine della la lettura: i suoni, i colori, i profumi della natura che rinasce, mentre domina il 'chiù dell’assiolo' in mi bemolle, presago di tempi migliori e del ritorno all’umana solidarietà. Un libro intenso, elegia di una città martoriata, con il coraggio di provarci ancora. Perché la vita ci sorprenda sempre. Come il romanzo della bravissima, Donatella Di Pietrantonio.
QUI SOPRA: LA SCRITTRICE DONATELLA DI PIETRANTONIO
AL CENTRO: LA ZONA ROSSA DEL CENTRO STORICO DE L'AQUILA
IN APERTURA: LA COPERTINA DEL ROMANZO