È emozionante aprire un libro e trovare una poesia!
Il libro è “Il sogno rapito” di Edith Bruck, la poesia è “Dentro la sostanza” di Nelo Risi, suo marito. È un atto d’amore iniziare il proprio romanzo con la scelta di una poesia scritta da chi ci vive accanto. Edith Bruck è la memoria storica, poetica, sensibile e filosofica della tragedia disumana della Shoà, del secolo appena trascorso. E oggi stiamo ancora nel divisionismo più bieco e non voglio usare il termine “razzismo”. Ebrei e Palestinesi due popoli sì, ma che partono entrambi dal ceppo di Sem, il figlio di Noè. C’è da specificare che Ebreo non indica appartenenza a una razza, non indica appartenenza ad una fede religiosa, non indica appartenenza a una nazione. Un Ebreo può essere italiano, tedesco, francese, ungherese, spagnolo, russo, americano e di qualsiasi altra nazionalità. Essere Ebreo significa appartenere a un popolo specifico, condividerne la cultura, la tradizione, di cui indubbiamente la religione è una componente fondamentale, riconoscersi nella sua storia e condividerne il destino. L’odio anti-ebraico che portò alla tragedia della seconda Guerra mondiale è diretto specificamente all’Ebreo in quanto tale, non quindi genericamente verso i popoli semiti e indipendentemente dalla religione professata.
Il ricordo, ebrei e palestinesi, cuore e ragione; l’Oriente è di nuovo percorso da scontri feroci e la primavera araba stenta a sbocciare. Sono queste le tematiche affrontate ne “Il sogno rapito”, edito dalla Garzanti, il nuovo libro della Bruck.
Ho sempre considerato la scrittrice Edith Bruck, come testimone del popolo ebreo ungherese sterminato dalla follia nazista.
“Nel dormiveglia mi sembrava di avvertire i passi felpati di Matteo che esce per andare in ospedale in anticipo sul solito orario mattutino”. È questo l’incipit del nuovo romanzo “filosofico” di Edith Bruck. Poche semplici parole, solamente sussurrate, possono scuotere nel profondo più di un violento terremoto. È quello che impara Sara in una mattina che sembra uguale a tutte le altre e che invece cambia ogni cosa. "Presto sarò padre" le dice Matteo, suo marito giovane medico, lasciando che la porta di casa si chiuda alle sua spalle come se nulla fosse. Il loro amore nacque al primo incontro. La coppia senza figli, lui, con il suo egocentrismo, vuole la moglie tutta per sé, vive in armonia e reciproco rispetto, con qualche episodio di gelosia di Sara verso il bel marito pieno di vitalità e di fascino. Ma quella frase detta uscendo, è stata una pugnalata per Sara che l’ha percepita nel dormiveglia matutino. Perché lui non ha mai voluto un figlio da Sara, e ora lo aspetta da un'altra donna, una giovane palestinese di nome Layla. La disperazione si fa strada dentro di lei. Lei che ha convissuto sin da piccola con l'idea di sofferenza, con l'idea che la gioia è solo un frammento, cresciuta nell’amore di una madre sopravvissuta e con un padre cattolico. Nelle sue vene scorre il sangue di un popolo che ha pagato alla Storia un prezzo altissimo: sua madre ancora adolescente ha conosciuto l'orrore dei campi di concentramento. Parte del suo passato vive in Sara. Per questo quando Matteo le dice che la madre di sua figlia è palestinese, il dolore per un semplice tradimento si accende di un significato più profondo. Un significato che affonda le radici in scontri e guerre che si protraggono da centinaia di anni. Eppure Sara non vuole rimanere imbrigliata in questa spirale di odio. Sente il bisogno inspiegabile di conoscere quella donna, come se il loro incontro potesse aggiungere un granello di sabbia nel deserto della pace. Come se la bambina che la donna ha partorito, potesse non solo unire le loro vite, ma costruire un ponte immaginario tra tre culture e tre religioni. Ma ci sono distanze che non si possono colmare.
“Forse sto tradendo la mamma con ogni mio sogno e pensiero. Lei ama la terra promessa anche per sua madre e suo padre che hanno vissuto nella speranza di tornare sul suolo sacro degli avi. Non ha mai voluto insegnarmi neanche la lingua del paese natio, prima fascista, poi stalinista, per tornare di nuovo al nazional-clericofascismo aleggiante sempre nell’aria come anidride carbonica, che accumulata nei polmoni sta liberando i fiati a lungo trattenuti!”
Edith, quanto c’è di lei nel personaggio Sara?
“È che potrei essere entrambe, madre e figlia, però c’è in me soprattutto l’idea di una pace universale. Spesso il sogno si scontra con la realtà quotidiana. È certo che nel libro quando Matteo dice a sua moglie Sara che la madre di sua figlia è palestinese, il dolore per un tradimento si accende di un significato più profondo, un significato che va oltre il tradimento stesso che alla fine risulterà irrisorio di fronte alla nascita della bambina”.
La nuova vita, la bambina, di chiunque sia, dovrebbe crescere senza odi, nella religione dell’amore universale: ci spiega questo concetto filosofico e sociale?
“Secondo me, che sono l’autrice de ‘Il sogno rapito’, immagino che la bambina, diciamo un figlio, è fin dalla culla patrimonio universale e che tutti dovrebbero onorare quel bambino. È come se la bambina che la donna ha partorito, potesse non solo unire le loro vite, ma costruire un ponte immaginario tra tre culture e tre religioni: la cultura europea, ebraica e palestinese. Europea poiché sono ebrea ungherese, educata da un padre cattolico e da una mamma ebrea. Ma ci sono distanze che non si possono colmare”.
Secondo noi, ‘Il sogno rapito’ è romanzo filosofico: lei, invece, come lo definirebbe?
“Direi un romanzo d’amore e di rispetto per i popoli e tra i popoli senza distinzione di razza, fede, nazione, rango sociale. Forse è per l’educazione ricevuta in famiglia ma io mi considero una francescana dedita alla sofferenza e verso il rispetto e l’amore per chi è più bisognoso di me. Il mio modo di concepire il francescanesimo è un ossequio ai poveri cercando, per quanto mi è permesso, di alleviare le sofferenze”.
La maternità, esistente o non esistente, come è vissuta da una scrittrice?
“Ecco, alleviare le sofferenze è in qualche modo alleviare il dolore psichico e fisico della mia maternità mancata, che ho vissuto male e ho sofferto molto. I libri mi danno ansie, dolori, soddisfazioni, gioie, preoccupazioni. Oggi, i miei libri sono i miei figli… Figli di carta”.
L’ispirazione possiede un suo ‘canale’ preferenziale, secondo lei?
“Sì, l’unico canale è la scrittura, che per me è respiro, ossigeno, in qualsiasi forma e genere si presenti l’ispirazione, il concepimento vero e proprio. È l’energia vitale”.
Come si rapporta al dolore, al tempo e al perdono nella sua realtà di donna e autrice?
“Sto facendo un cammino di riappacificazione con me stessa e avverto sempre di più la pietà e la compassione per l’umanità che non è riuscita a comprendere la lezione di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen , che non ha capito la tragedia del Vietnam, che sta tentennando sul bloccare subito l’invasione dell’Ucraina, dei vari crimini e violenze che quotidianamente si perpetuano nel mondo. Sono contraria a qualsiasi forma di pena di morte. Fa orrore il solo pensarci! Non bisogna dimenticare, eppure l’uomo è ancora quello della pietra e della fionda. Le stragi verso l’umanità non hanno insegnato nulla; viviamo in un continuo ripetersi”.
L'autrice
Edith Bruck, di origine ungherese, è nata in un villaggio ai confini dell'Ucraina da una famiglia numerosa di ebrei poverissimi. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio si stabilisce in Italia, adottandone la lingua. Nel 1959 esce il suo primo libro “Chi ti ama così”, un’autobiografia che racconta la sua infanzia in riva al Tibisco e nella Germania dei Lager. Nel 1962 pubblica il volume di racconti “Andremo in città”, da cui il marito, il poeta e regista Nelo Risi, ne offrirà la versione cinematografica con Geraldine Chaplin e Nino Castelnuovo. È autrice di poesie e di romanzi come Le sacre nozze (1969), Nuda proprietà (1993), Lettera da Francoforte (2004), Quanta stella c’è nel cielo (2009), da cui “Anita B.” il film di Roberto Faenza, e ancora Privato (2010), La donna dal cappotto verde (Nuova biblioteca Garzanti - 2012). Le sue opere rendono testimonianza, da non dimenticare, della Shoah. Nella lunga carriera ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in più lingue. Tra gli altri, è traduttrice lei stessa di Attila József e Miklós Radnóti.
Edith Bruck ha collaborato con alcuni giornali, come Il Tempo, il Corriere della Sera e Il Messaggero, intervenendo in diverse occasioni intorno ai temi dell'identità ebraica e della politica di Israele.
Gli scritti, le poesie e i filmati di Edith Bruck rievocano sensazioni ed esperienze vissute sulla propria pelle e quella di un popolo intero; la Bruck offre al suo estimatore, la possibilità di interloquire con la realtà di fatti realmente accaduti.La poesia di Edith Bruck è molto originale in quanto fa percepire quella strana struggente malinconica nostalgia che si avvicina di più al fado portoghese, donandoci la speranza di quel rinnovamento dell’animo umano tanto agognato fatto di teneri ricordi vissuti in un freddo ed orrido momento della storia dell’umanità.
“Nei giorni e nelle notti successive ognuno rimane nel proprio cantuccio per un tempo che non è quantificabile: quando si vive nel dolore sembra raddoppiarsi, triplicarsi, al contrario della gioia, della felicità che sembrano sfuggenti, brevi, come fuochi di paglia. Poi una sera, senza far rumore, Matteo entra nella nostra stanza e senza una sillaba, con lo sguardo muto da bambino cresciuto, mi chiede di entrare nel nostro letto. Alzo la coperta dalla sua parte e lascio che si stenda al mio fianco”.
Il sogno rapito
Edith Bruck, Garzanti, collana Narratori Moderni, 2014
pagg 113, €14,90