Intervista all’autrice del romanzo ‘Vuoto’, pubblicato da Les Flâneurs Edizioni e presentato al Premio Strega 2023
L’ultimo libro di Ilaria Palomba, intitolato ‘Vuoto’ e pubblicato il 24 novembre 2022 da Les Flâneurs Edizioni, è un testo coraggioso, perché non teme gli abissi dell’inconscio. Un’opera che si rifiuta di offrire al lettore una concezione edulcorata o accomodante della realtà. ‘Vuoto’ è un libro di visioni e pura scrittura: una catabasi minuziosa nella psiche di una giovane donna, di nome Iris, che si mette a nudo raccontando i suoi traumi, i suoi amori tormentati e violenti, un’analisi psicanalitica che è al contempo un atto di rivolta e di protesta contro la psicanalisi e la società. Con una prosa vibrante e lirica al contempo, Iris ripercorre i luoghi della sua infanzia nel Salento fino ad arrivare a Roma, dove vive insieme al marito, Federico, cercando di non farsi sopraffare dalla paura dell’abbandono. Andando avanti nella lettura è facile scorgere il senso del titolo: ‘Vuoto’. Un testo volutamente antinarrativo non fa altro che mettere a fuoco il processo di disappropriazione dell’io, anche mediante l’aiuto del ‘buddismo’, da cui Iris è attratta pur non riconoscendosi in alcun credo. In questa intervista, Ilaria Palomba ripercorre i punti salienti del suo romanzo, fornendo ai lettori un approfondimento sulla sua concezione della scrittura e della letteratura.
Ilaria Palomba, nel suo ultimo romanzo, ‘Vuoto’, ci ha molto colpito la divisione della narrazione in stagioni: a cosa è dovuta questa scelta stilistica e che rapporto ha con il tempo?
“Ho pensato al film di Kim Ki-duk: ‘Primavera, estate, inverno, autunno e ancora primavera’. Il romanzo inizia con un’estate e finisce con un’estate, per poi varcare la soglia dell’atemporalità. Nel cerchio di questa temporalità disturbata, Iris si smembra, per poi tornare al mondo spogliata da qualsiasi tentativo di costruzione identitaria. Viene restituita come ‘altro’. Consegna la sua storia al mondo, chiedendo a chi legge di far fiorire il delirio. Per me, il tempo è un macigno. Non mi riconosco nello scorrere degli anni: non ho alcuna età. Forse, attraversando il vuoto ho imparato a vivere fuori dal tempo, lontano dal codice che sovrasta e impregna la vita di tutti. Perciò, non mi pronuncio quasi mai su argomenti di attualità: io sono altrove. È una chiave mistica, indubbiamente, la mia: la capacità, d’ispirazione ‘agostiniana’ di riconoscere l’esistenza nel presente, ma in un presente che non è mai il susseguirsi degli avvenimenti. È una presenza ritrovata dopo la crisi, con tutta la difficoltà di abitare un corpo”.
‘Vuoto’ è stato definito “un ‘memoir’ visionario”, anche se l'ispirazione rapsodica e l'assenza di una vera e propria trama fanno pensare a quel macrogenere che oggi siamo portati a chiamare poesia, un ibrido dove spesso confluiscono le esperienze artistiche più disparate: lei si sente più vicina alla narrativa o alla poesia?
“Kierkegaard diceva che “un’esistenza da poeta è un sacrificio umano”: così posso intendere la mia. Nella scrittura seguo solo una voce: costruire trame non mi appartiene, sono distante dalla narrativa contemporanea. È un percorso iniziato con ‘Disturbi di luminosità’, che passa per ‘Brama’ e raggiunge il ‘Vuoto’. Questa trilogia potrebbe essere intesa come una trilogia poetica. I personaggi sono dei doppi letterari, che vivono un’esistenza onirica. La differenza tra la scrittura in versi e quella in prosa man mano si assottiglia. ‘Mancanza’, ‘Deserto’, ‘Città metafisiche’ e ‘Microcosmi’ sono sillogi che posso considerare parallele alla stesura dei tre romanzi di cui dicevo. Ascolto una voce, attraverso l’ombra e il sogno, cerco di raggiungere la sorgente”.
Nel libro, la protagonista, Iris, cerca nel ‘buddismo’ un modo per trovare riparo dai suoi demoni, oltre che per fuggire dall’attrazione nei confronti di relazioni tormentate e sadomasochistiche: cosa ne pensa del ‘buddismo’? Come so poni nei confronti delle religioni?
“M’interessano, m’incuriosiscono tutte le religioni. Mentre scrivevo ‘Vuoto’, praticavo il ‘buddismo’ di Nichiren. Prima avevo sperimentato le puja in Nepal (si direbbe siano due forme di fede completamente diverse). La mia matrice, però, resta cristiana. Non aderisco a nulla acriticamente: ho una mia spiritualità, che non fa capo ad alcuna chiesa. Ora vorrei approfondire lo gnosticismo. ‘Vuoto’ si apre con una citazione dal poema copto ‘Tuono, mente perfetta’. L’idea di una divinità femminile, che sia luce e ombra, padre e madre, prostituta e santa, pervade l’intero romanzo”.
Il padre di Iris dice a sua figlia che la fragilità è la sua più grande risorsa: lei è d'accordo? Cos'è la fragilità?
“La fragilità è presto sperimentata quando si comprende di essere fuori dal tempo degli altri, distanti, senza confini. In parte, è una forma di dissenso: una voce solitaria che si leva e non viene compresa. Ovvero, non viene riassorbita dal contesto. La fragilità è l’osceno, il fuori contesto che pretende di esistere, nonostante sia altrove. Non è semplice abitare il ‘deragliamento’: fuori dai bordi, l’esistenza è popolata da ‘mostri’. Il senso di fallimento incombe nella coscienza di chi prova a smarginare il codice. Ma senza questa diversità non esisterebbe l’avanguardia”.
Se potesse mandare un messaggio a Iris cosa le direbbe?
“Non obbedire a nessuno, neanche per amore”.
In ‘Vuoto’, oltre ad aver scandagliato con grande sincerità e precisione i fondali dell'inconscio, è riuscita, attraverso la scrittura, a mostrare cosa significa vivere la perdita di un grande amico, il poeta Giulio, morto in circostanze misteriose: che cos’è l'amicizia, secondo lei? E perché, nell'immaginario di oggi e nella gerarchia dei rapporti umani, gli si attribuisce un ruolo così marginale?
“L’amicizia è molto simile all’amore. E come l’amore, rischia di divorare. Tra Iris e Giulio è quasi impossibile tracciare un confine, tanto che alla morte dell’amato amico lei perde di vista sé stessa, non riesce a elaborare il lutto, finisce per viverlo in modo persecutorio. L’amicizia è condividere un segreto, un linguaggio comune esistente tra due persone. Tradire il linguaggio comune significa rompere quel legame. Oggi, forse, siamo tutti troppo aderenti al codice unico aziendale per poter condividere uno stile che sia un segreto tra due o più persone. Ma esistono le eccezioni…”.
Che cos'è per lei la letteratura? Cosa è cambiato nel tuo rapporto con la scrittura, da quando hai pubblicato il primo libro?
“Il mio primo libro è stato un errore: è la ‘sbobinatura’ di un’intervista, non avevo ancora trovato la voce. La letteratura è sempre stata, per me - da quando ho iniziato a seguirla - una voce solitaria, che cerca di forare i bordi del codice. Non è facile: è una lotta ‘donchisciottesca’. Non è seguire il vento, la moda, mettersi in coda aspettando il proprio turno nella gara, sgomitando per abbattere gli avversari. Questo è ciò che ci insegnano. Ma questo è solo stare al mondo. Per parafrasare Cristina Campo: “La letteratura viene dall’altro”.