Il bel romanzo di Lia Migale, edito da La Lepre Edizioni, rievoca il ‘Giano bifronte’ di una generazione che ebbe il coraggio di porsi al centro della scena sociale alla ricerca di una liberazione nella claustrofobica Italia piccolo borghese degli anni '70
L’ho letto di notte, il ‘memoir collettivo’ di Lia Migale. Quando di solito le anime volgono all’oblio, io ho voluto ricordare, benché l’autrice abbia conseguito il diploma di maturità quattordici anni prima di me. Le stesse strade, gli stessi sentimenti. Siamo, infatti, in una città romana, col suo anfiteatro e il suo duomo romanico che sorge dove il corso antico si congiunge con quello nuovo. Una ridente cittadina di provincia, che dista parimenti 20 chilometri dal mare e dal granitico Gran Sasso. Frequentavamo lo stesso stabilimento balneare: il Marconi. E ballavamo al 'Sayonara'. Qualche amicizia in comune, benché in anni diversi, ci lega a persone eclettiche e talentuose: un attore di teatro - Silvio - e una nota cabarettista, Grazia. E il compianto Marco, che ricordo benissimo. Stessi circoli universitari e culturali erano il teatro di sguardi incrociati e baci rubati. Lì, inseguivamo il sogno di amori impossibili, sulle note di Bobby Solo e dei Beatles. E ci struggevamo sui versi di Giacomo Leopardi con lo stesso ‘spleen romantico’. Il testo, di assoluto pregio stilistico e documentaristico della generazione nata a ridosso della guerra, dà uno spaccato vivo e commosso dell’Italia al tempo del Movimento degli anni '70, dove l’amore, inteso in senso stretto e lato, era vissuto come sacrificio di sé per la causa comune, giocando un ruolo fondamentale. Era il tempo degli ideali, delle prime conquiste di liberazione sessuale, mentre le ragazze di provincia, come Lia, Gioia, Rossella e Anna assistevano, con dolore e invidia, alla maggiore libertà dei maschi, cui pure occhieggiavano. Le lunghe chiacchierate nei bagni delle scuole, la cosmesi comunitaria, lo studio pomeridiano di gruppo, gli stessi gusti musicali univano una generazione nata sulle ceneri della guerra, sulla povertà, ma anche sulla ricchezza di valori, stante una certa sperequazione sociale che in provincia si avvertiva in modo sensibile. Tutto parte da una lettera, che l’autrice ritrova, dell’amica Gioia. E la memoria d’incanto si srotola: se la rivede davanti agli occhi quell’amica, rimasta intatta nella sua bellezza anche da morta; e rivede tutta la sua vita, trovandogli un senso. Rivede se stessa, Annetta, Rossella, Bianca, Wanda, Clara, Silvio, Marco. Il tempo è quello della vita vissuta, ma appare ora come una freccia, senza possibilità di ritorno. Siamo di fronte al solito dilemma: il tempo, da giovani, ci appare circolare, con infinite possibilità davanti e di dietro, con la maturità, una linea dove tanto si è perso e risulta irrecuperabile. Viviamo questa condizione con una profonda cognizione del dolore che la vita ci dà. E col rimpianto di essere stati tristi e consumati da una passione non corrisposta, quando invece potevamo essere felici. La vita ci toglie, piuttosto che darci: a Lia Migale ha tolto la sua alter ego, Gusmana, di travolgente fascino, così ambiguamente amata da creare una sovrapposizione tra le due amiche. Povera Gusmana, morta giovane di tumore. E povera Lia, rimasta dimidiata. La vita ci costringe a cambiare sempre e ancora sempre: niente rimane uguale e Parmenide ha perso. Lia, la sua generazione e la mia, hanno patito la mutazione della pelle e finanche un simbolico espianto del cuore quando qualcuno di vitale se ne va, risucchiato da morte precoce. Gusmana, Mario, Michi, Marco, il padre… E ora, passeggiando per la città natale o per i cimiteri di Roma, dove si è trasferita da universitaria e tuttora vive, va a far visita ai suoi defunti, ancora profondamente dolente per ciò che è stato e mai più sarà. Nella foto in bianco e nero in copertina, avanti e retro, ragazze col megafono e il pugno chiuso celebrano la prima giornata femminista, l’otto marzo 1972. Una foto che evoca ricordi lontani, ma tuttora presenti, di quando protestavamo in nome della mia e della altrui libertà femminile. Poi l’ingresso di Lia in ‘Lotta continua’, il sostegno agli operai davanti le fabbriche contro un capitalismo delirante, l’amore e la condivisione. A qualcuno sfugge il controllo e si dà alla lotta armata. Come Marco, che finisce in carcere e poi si suicida. La strage di piazza Fontana, l’incriminazione di Valpreda e l’inizio degli anni di piombo: tutto viene dalla scrittrice rievocato con dolore di fronte alla morte, ma anche con l’entusiasmo per ciò che si è stati. Per essersi sentiti i promotori della pace, per aver sentito urgente il sacrificio per la comune causa. La vita intensamente vissuta arreca gioie, certo, ma anche dilania. Lia ne porta i segni e cade in malattia, da cui si risolleva grazie alle amiche. Le donne sono le protagoniste più riuscite dell’opera, perché la scrittrice è particolarmente sensibile alla causa femminista e oggi è membro del direttivo della Casa internazionale delle donne di Roma. “Michi l’avevo conosciuta quando, dopo l’uscita da Lotta Continua, con altre compagne avevamo costituito il Collettivo Centro. Le sue parole erano il vento del sapere, del noi che volevamo essere libere: libere dai legami, libere di amare, libere di fare, libere di essere”.
Lia Migale, teramana di nascita e romana di adozione, ha avuto la libertà di essere una donna libera e una grande scrittrice.
QUI SOPRA: LIA MIGALE, SCRITTICE
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