Una raccolta di poesie simili a filastrocche in cui l’infanzia del diavoletto Zebù viene problematizzata in un reciproco avvicinamento delle categorie di bene e male, che finiscono per rispecchiarsi l’una nell’altra interrogando il lettore sul relativismo culturale e linguistico che condiziona l’esperienza umana
Zebù bambino, la nuova raccolta di Davide Cortese edita da Terra d’ulivi all’interno della collana Deserti luoghi, diretta da Giovanni Ibello, è composta da ventuno testi dedicati alla memoria di Gabriele Galloni.
Il personaggio del piccolo Zebù colpisce per la sua capricciosa innocenza: l’agire vivace e spontaneo, tipico di un bambino, umanizza una figura comunemente stigmatizzata, in quanto demoniaca. Ciò determina un rovesciamento delle categorie assolute di bene e male, che finiscono per rispecchiarsi l’una nell’altra. In tale contesto l’ironica blasfemia di Zebù si traduce in una disperata richiesta di attenzione e comprensione: egli si ritrova a essere vittima di pregiudizi che forniscono impulso alla sua natura reattiva e quindi al suo bisogno di difendersi per sopravvivere, di essere accolto e accettato per avere la possibilità di ricavare un proprio spazio nel mondo.
Interessante la scelta del nome Zebù, diminutivo di Belzebù, che nella sua ambiguità interpretativa apre un’area di senso intermedia, dialetticamente compresa tra due poli, entro cui si concretizzano le azioni che la morale spinge a etichettare positivamente o negativamente: nella cultura giudaico-cristiana, infatti, Belzebù viene considerato uno dei tanti appellativi del diavolo, mentre lo stesso era adorato come una divinità dai Filistei (in fondo anche Lucifero era in origine un angelo buono).
A livello stilistico, infine, la deliberata semplicità dei versi, sia dal punto di vista sintattico che lessicale, riproduce la condizione dell’infanzia, ma Zebù non parla in prima persona: al contrario, è una voce esterna a tratteggiarne i contorni, come se fosse compito di qualcuno raccogliere la sua parola dimenticata sul limitare di una soglia, il luogo del linguaggio, come rileva Mattia Tarantino nella nota che conclude il libro.