Ciclisti di tutto il mondo invadono le strade delle grandi città alla conquista di spazi perduti: no a smog e congestionamento del traffico, sì a centri urbani più vivibili ed ecologici. Autorizzati o no, i movimenti organizzati dai ‘bikers’ si stanno diffondendo a macchia d’olio, disturbando sempre più la ‘quiete’ di automobilisti e istituzioni
L’invenzione della bicicletta ha rappresentato una svolta epocale nella storia della mobilità. Sebbene inizialmente fosse considerata prevalentemente un hobby, si hanno notizie, già in tempi remoti, sull’uso anche ‘pratico’ che poteva assumere questo nuovo ‘cavallo’. Quando nel 1817 il barone Karl von Drais inventò, in Germania, la sua ‘Laufmachine’ (macchina da corsa) aveva pensato, appunto, a un veicolo capace di far muovere le persone senza il ricorso agli equini. In breve tempo l’uso di questo mezzo di trasporto si impose sugli altri e divenne sinonimo dell’essere all’avanguardia e, soprattutto, di indipendenza. In particolare le donne avevano la possibilità di ‘sfuggire’ occasionalmente alle morse serrate delle famiglie, cavalcando la loro bici e permettendosi il ‘lusso’ di uscire da sole per fare delle piacevoli passeggiate. L’enorme successo e la rapida espansione dell’uso del biciclo andò presto ad evidenziare la necessità di apportare miglioramenti non solo allo ‘strumento’, ma si profilò anche l’esigenza di migliorare le strade, che non è dunque fenomeno esclusivo dei giorni nostri: nel 1876, infatti, Alexander Pope fu promotore del ‘movimento per le buone strade’ battendosi per il miglioramento delle condizioni di viabilità dei viali. Sin dai suoi esordi, pertanto, la bicicletta si è imposta come rivoluzionaria da più prospettive e, se intorno al 1860 il modello ‘scuotiossa’ (boneshaker, appunto, nei paesi anglosassoni) ha fatto parlare di sé per le sue prestazioni ‘pericolose’, ai giorni nostri si stanno verificando dei movimenti di protesta, da parte dei ciclisti, ai quali potremmo assegnare un nome analogo perché mirano a ‘scuotere’ le coscienze degli automobilisti e delle istituzioni.
Nel corso degli anni le nostre città sono state invase, infatti, da milioni di automobili e gli amanti delle bici sono stati relegati a spazi sempre più ristretti, riconducibili a parchi e a poche decine di metri di piste ciclabili. L’aumento dello smog e il congestionamento delle strade causati dai veicoli a motore, hanno contribuito a rendere i grandi centri urbani spazi ostruiti, pericolosi per pedoni e ciclisti, invivibili e tossici, causando l’insofferenza di quanti anelano a vivere in un ambiente che sia a misura d’uomo.
Ed è proprio con l’obiettivo di sollecitare e diffondere una cultura che sensibilizzi al rispetto dell’ambiente e delle esigenze umane, che sono nate organizzazioni costituite dai ‘bikers’ – professionisti, ma anche semplici appassionati che ne hanno fatto il loro credo e una scelta di vita – e che si stanno ampliando non solo nel numero dei sostenitori, ma anche nella frequenza delle manifestazioni programmate.
Tra le prime forme di espressione di ‘orgoglio ciclistico’, che si vuole porre come modello di vita ‘alternativa’ perseguibile, va ricordata la Critical Mass; la CM, nata a San Francisco nel 1992, è una dimostrazione internazionale non autorizzata - e si tiene in più di 500 città del mondo, ogni ultimo venerdì del mese –, che si batte per il diritto di considerare le strade in modo ‘altro’ e non semplici luoghi dove far circolare e ammassare le automobili. L’attenzione è rivolta al deteriorarsi della qualità della vita, a partire dai livelli di inquinamento, sia atmosferico sia acustico, che i mezzi a motore creano nelle città. L’evento non è gestito da nessuna organizzazione, ma si basa sul passaparola e l’autopromozione di chi: definito il luogo dell’incontro, ci si ritrova lì il giorno stabilito e…via! Spontaneamente i ciclisti si riversano in massa nelle strade, percorrendo tragitti normalmente occupati dalle macchine. Non si seguono percorsi prestabiliti, ma tappe che variano continuamente e che si definiscono di volta in volta. Alla sua prima edizione i partecipanti erano solo 48, ma oggi - a più di 20 anni di distanza - ogni ‘parata’ vede sfilare oltre diecimila sostenitori del biciclo, sebbene le stime sull’adesione siano suscettibili dell’interpretazione di chi le fornisce (questura, stampa, partecipanti). A questo corteo, come ad altri, colpisce in particolar modo la scelta, variegatissima, dei veicoli che fa mutare la vista da modelli molto semplici ad altri assolutamente eccentrici: a due, tre o quattro ruote, per le strade e per i viali si potranno ammirare esemplari di biciclette a forma di nave, di cavallo, di fiori, di piante, a due o tre posti e addirittura a più piani sovrapposti. Lo scopo del popolo dei pedalatori è quello di farsi notare (non ‘vanitas’) per affermare, attraverso le vivaci e variopinte tonalità dei colori – contrapposte al grigiore piatto e tossico delle strade –, e gli scampanelii ‘a gran voce’, la loro presenza nel mondo della viabilità, rammentando che i ciclisti “Non bloccano il traffico. Sono il traffico” (al pari degli altri mezzi di trasporto). E quando la partecipazione è consistente (‘critica’ appunto), la dimostrazione ha raggiunto il suo obiettivo: creare forti disagi agli automobilisti e alla mobilità pubblica e acquisire visibilità. Una volta all’anno si svolge anche la ‘Ciemmona’ (da Critical Mass+ona) interplanetaria, ovvero lo svolgersi della manifestazione in circa 500 città del mondo contemporaneamente. L’anno scorso a Roma erano in 8.000 e ancora non si hanno stime sicure su quella, appena trascorsa, del 2 giugno 2013. Possiamo affermare, però, che il corteo aveva le sembianze di un fiume in piena.
Accanto alla CM, un'altra forma di espressione, tesa a diffondere la consapevolezza dell’esistenza di una possibilità alternativa alla globalizzazione operata dall’uso delle automobili, è costituita dal Bike Pride. In Italia sta diventando un vero e proprio ‘cult’ e, nelle grandi città, viene organizzata una parata al mese: il 14 maggio a Bologna e il 26 a Torino le più recenti. Il presidente del bike pride di Torino, Fabrizio Zanchetta, ha sottolineato che l’evento – snodatosi su 8 km di pista – è stato organizzato per sponsorizzare, favorire e diffondere una cultura e un ‘modus vivendi’ diverso da quello a cui siamo omologati e abituati da decenni: opporsi al traffico, allo smog e al congestionamento della mobilità per ‘pedalare’, invece, verso la via della sostenibilità ambientale e la vivibilità dei grandi centri urbani. L’orgoglio ciclistico, pertanto, non avanza soltanto richieste di città per le biciclette, ma di città per l’uomo e sprona a riconquistare la dimensione umana, perduta nelle metropoli . Andare in bici è una scelta di vita: scelta di coloro i quali vivono bene la città e di quanti cercano e trovano una comunione con la natura e con gli altri. I ciclisti, infatti, si avvicinano, si conoscono, intraprendono relazioni profonde in una società che invece va sempre di fretta, nella quale non c’è tempo e spazio per rapporti che siano qualcosa in più del superficiale. Andare in bici è uno sport, aiuta a mantenersi in forma, ma è anche un divertimento. Pensiamo al senso di libertà e di indipendenza che provano i bambini quando sono a cavallo della loro bici. Attraverso il Bike Pride i ciclisti cercano di mostrare uno spiraglio di vita ‘altro’ e, contemporaneamente, propongono idee e soluzioni volte al miglioramento della viabilità. Durante la parata del 26 maggio, ad esempio, sono state avanzate alcune proposte al comune di Torino, tra le quali spicca la richiesta di utilizzare parte dei soldi provenienti dalle multe in investimenti nella sicurezza stradale. Appare controverso, infatti, che la crescita dell'industria automobilistica sia considerata un indicatore di prosperità, quando proprio l’automobile causa più di diecimila vittime all’anno.
Nel dettaglio, si è chiesto di destinare un 15 % di queste risorse per il finanziamento del ‘BiciPlan’, un piano di viabilità ciclistica della città. Un altro 10% degli introiti da destinare alla creazione di ‘zone 30’ (dove si può viaggiare a un massimo di 30 km/h, come nei controviali) e, infine, un 5% per la preparazione di campagne di sensibilizzazione all’uso della bicicletta. Tutto ciò sottolinea che il Bike Pride non è solo un momento di festa, ma anche un’occasione per fare il punto sulla mobilità ciclabile e per proporre cambiamenti positivi per le città. Andare in bici consente di correggere il rapporto con l’ecosistema, ma offre anche la possibilità di abbinare alla passeggiata un itinerario culturale, storico, gastronomico, enologico ecc.
La bicicletta sta diventando, dunque, il cuore di nuove interpretazioni del vivere ‘meglio’. Ne è fermamente convinto Paolo Pileri, docente del dipartimento di architettura e pianificazione al Politecnico di Milano, responsabile del progetto ‘Vento’, un’opera ambiziosa con la quale si collegherebbero, attraverso una ciclovia lunga 679 km, Venezia e Torino (da cui Ven-To). Pileri sottolinea l’importanza e l’attrattiva costituita dalla pista ciclabile la quale, attraversando i villaggi disseminati lungo il fiume Po’ e passando anche per Milano, porterebbe nuova linfa economica e turistica, grazie a un’affluenza stimata tra le quarantamila e le duecentomila persone. La premessa per la costruzione della ciclovia è la sua sicurezza e, di conseguenza, l’eterogeneità della fruizione del servizio: dal bambino all’esperto, senza differenze. Il progetto si può realizzare in soli due anni dal momento che, lungo le sponde del fiume più lungo d’Italia, delle piste ciclabili esistono già; quindi andrebbero soltanto collegate e costruiti i percorsi inesistenti. I costi? Basterebbero ottanta milioni di euro, ma il ‘blocco’ normativo (di Stato, Regioni toccate dal Po’ ed Enti fluviali) impedisce l’avvio del piano. Negare Vento, afferma sempre Pileri, significa negare un’occasione di sviluppo sano per il territorio e una risposta economica e culturale al sistema turistico italiano. Il percorso favorirebbe la rinascita turistica di molti centri, dando lavoro a molte persone: quattordicimila aziende agricole e oltre trecento attività ricettive sarebbero ‘toccate’ da Vento. Inoltre il progetto del tracciato è posto a non più di 6 km dalle stazioni ferroviarie, dando la possibilità, a chi non ce la facesse a percorrere tutti i 679 km, di fermarsi in qualsiasi momento e prendere il treno, fermarsi altrove e ripartire.
La bicicletta non inquina, brucia grassi, unisce persone e culture e, sembra, possa favorire anche il circuito economico. Per anni abbiamo corso in sella alle nostre macchine. Che sia giunto il momento di ricominciare a pedalare?