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L'ultimo lavoro dei Depeche Mode è sicuramente uno degli album più attesi dell’anno, il risultato sofisticatissimo di un'evoluzione che ha sviluppato suoni sempre più moderni al fine di mescolarli con tutti i generi musicali
È uscito a fine marzo anche in Italia uno degli album musicali più attesi dell’anno: ‘Delta Machine’, del gruppo britannico ‘Depeche Mode’. Si tratta di una notizia importante, soprattutto perché segnala la definitiva maturazione di un gruppo assai osteggiato dalla critica negli anni ottanta - in cui si imposero come band ‘dance-pop’ popolarissima tra i giovani ‘paninari’ dell’epoca - e oggi completamente riabilitato, se non addirittura osannato. Pur mantenendo un proprio tipico ‘timbro’ artistico, bisogna innanzitutto sottolineare come questa band riesca sempre e coraggiosamente a ‘spiazzare’ il pubblico, persino il proprio. Tuttavia, la loro evoluzione si è sempre imperniata attorno a un’idea semplicissima: sviluppare suoni sempre più sofisticati e moderni al fine di mescolarli con tutti i generi musicali. Ecco, dunque, il vero ‘concept’ di fondo di un percorso segnato, negli anni, da un inizio folgorante, basato intorno a uno stile ‘dance-elettronico’ mai banale, a dire il vero, sino alle successive evoluzioni dell’indimenticabile ‘Violator’ e del perfetto ‘Songs of faith and devotion’, in cui i DM riuscirono a cimentarsi con successo nella fusione del loro sound con il rock più duro e sofferto. In precedenza, il gruppo aveva avuto qualche digressione, non troppo riuscita, nel ‘dark’ con l’album ‘Black celebration’, il quale risultò ‘figlio’ di dubbi poco risolti tra una piena immersione in un genere quasi settario - o comunque molto di ‘nicchia’ - e l’approdo definitivo alla sponda dell’affermazione come rock-band di livello mondiale. Tuttavia, miracolosamente i DM seppero recuperare al meglio il ‘filo’ anche di questo approfondimento, nella seconda metà degli anni ’90, con l’ottimo ‘Ultra’, che li santificò per l’intelligente approccio stilisticamente meditativo e, al contempo, originale. I primi anni duemila segnarono una fase più intimista: gli album ‘Exciter’ e ‘Playing the angel’ non hanno soddisfatto del tutto i milioni di fans, pur regalando qua e là vere e proprie ‘perle’ di ineguagliabile bellezza come ‘Freelove’ e ‘Nothing is impossible’. Il resto è storia recente: con ‘Sound of the universe’, la band ha dimostrato di aver raggiunto un equilibrio di suoni praticamente perfetto, sgombrando molte nubi dal proprio orizzonte creativo, al fine di renderlo disponibile alle contaminazioni con i più svariati generi musicali. Ed ecco spiegato come i Depeche Mode siano giunti a quest’ultima, arditissima, impresa: la fusione del loro stile ‘sintetico’, ormai divenuto un vero e proprio marchio di fabbrica, addirittura con il blues. Il risultato è il sofisticatissimo ‘Delta Machine’: la vena creativa appare, sin da subito, pienamente recuperata; la maturazione artistica, ma anche quella umana e personale dei componenti di tutta la band, definitivamente raggiunta; il capolavoro, risolutamente compiuto. In un panorama musicale totalmente appiattito attorno a sonorità semplicistiche di ossessionante ricerca di mood accattivanti, i DM si impongono come musicisti perennemente all’avanguardia, sempre un passo avanti a tutti gli altri con i loro suoni solenni, di difficile decrittazione, in cui pochissime sono le concessioni alle esigenze commerciali o di mercato. Suoni e strumenti debbono essere ‘cercati’ con pazienza, all’interno di un ‘insieme’ musicale che conquista poco per volta: ogni nuovo ascolto è una scoperta; ogni nuova scoperta, un’idea; ogni nuova idea, uno spunto creativo che raggiunge pienamente lo scopo di resuscitare il caro, vecchio e ‘caldo’ blues passando per il difficile ‘varco’ delle ‘fredde’ sonorità ‘synth’. Il tutto è completato dall’ormai inconfondibile voce di Dave Gahan, che con i suoi incredibili ‘polmoni’ riesce a rendere ogni brano, anche quelli di ‘conduzione’ o di ‘transizione’ tra un ‘pezzo’ e l’altro - altra brillantissima idea di questa band, più volte sperimentata sin dai tempi di ‘Violator’ - carico di profondità interpretativa, colmando con tenacia l’evidente mancanza della maestria ‘polistrumentistica’ di quell’Alan Wilder di cui i fans continuano a reclamare il ritorno. Insomma, siamo con piena evidenza di fronte a un gruppo che è riuscito ad accompagnare 3 intere generazioni di giovani di tutto il mondo con affetto e autenticità, dimostrando pienamente, con il proprio sperimentalismo febbrile, come sia più corretto optare per la via dei cambiamenti e della costante ‘recherche’, rispetto alla facile ‘replicanza’, mercenaria e nostalgica, dei tanti ‘c’era una volta’.
DA ASCOLTARE: Should Be Higher, Delta Machine, Depeche Mode dal vivo