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È la denuncia del giovane cantautore foggiano che in questa intervista ci racconta la grave crisi di identità culturale che sta investendo il mondo della produzione discografica, italiana e internazionale
"Segni particolari: 'canotta' nera a costine, giacca, arrivo dai boschi, curioso, sono un uomo con la barba". Chi parla è Fabio Specchiulli, in arte Fabio De Matteis, un giovane cantautore foggiano che in questa intervista ci racconta la grave crisi di identità culturale che sta investendo il mondo produzione discografica, italiana e internazionale. In dubbiamente dotato di sana autoironia, come si capisce subito dalla sua autopresentazione pubblicata su www.rockit.it, di lui vi possiamo raccontare che dal 2004 al 2009 è stato il ‘frontman’ del gruppo ‘ConfusaMente Stabile’. Nel 2011 ha registrato il suo album d’esordio e, nel 2012, si è fatto apprezzare durante una lunga tournée italiana “on the road”. Questo artista affronta numerose tematiche nel classico stile ‘voce e chitarra’, con la collaborazione di Massimiliano Lotti, Giuliano Dottori e Dino Morabito come produttore artistico. Nell’album ‘Io non mi fido di questo mare’, da cui è estratto il singolo ‘Anche se non ci fosse più niente da fare’, passa dalla poesia d’amore alla canzone contro il potere, dall’ironia contro la società dei consumi e del ‘silicone’ per giungere, infine, ad affrontare anche le sue personali contraddizioni. La vita di questo giovane e bravo cantautore è ormai divenuta un eterno tour in Italia, tra la Puglia, Firenze, l’Abruzzo e Roma, ma anche all’estero, per scoprire se stesso e il piacere di assaporare ‘l’Altro’. Infatti, dopo il suo primo viaggio in Africa ci torna ogni anno. Le sensazioni ricavate nell’ascoltare il suo nuovo album sono confermate in questo nostro incontro, durante il quale Fabio si è messo a nudo, svelando le difficoltà dei cantautori in Italia.
Fabio, innanzitutto cosa significa per te ‘Io non fido di questo mare’ dal punto di vista artistico? “Dal punto di vista artistico, rappresenta la chiusura di un periodo lungo della mia vita, intesa sia da un punto di vista musicale che puramente personale, di essere umano. Per ogni chiusura c'è sempre una nuova apertura e così, dopo qualche anno, in cui sono stato il frontman del gruppo ‘Confusamente Stabile’, con i quali avevamo sonorità rock e in cui veniva dato molto spazio alle parti strumentali, ho voluto esordire da solista con un album scarno, con arrangiamenti leggeri, che fanno da cornice ai testi e alle melodie suggestive della voce. Simbolicamente, il ‘mare’ in questo album rappresenta il ‘mondo’, sia interiore, sia quello sociale. Un mondo di cui, chiaramente, non mi fido. E quando non mi fido di qualcosa o qualcuno, quando non mi fido di me stesso, non evito ma, anzi, mi incuriosisco e mi immergo per toccare con mano cosa c'è davvero dietro l'apparenza. Sono convinto che se in superficie il mare è cristallino, da qualche parte è nascosta la melma e viceversa. Siamo fatti di polarità e per essere davvero felici, ma dobbiamo rischiare di vederci meno belli e bravi di quello che pensiamo e più forti di quanto crediamo di essere”.
Quanto è difficile per un cantante, in particolare per un cantautore, accedere a un contratto discografico allo stato attuale? “Oggi non basta scrivere belle canzoni, ma occorre investire molte energie nella ricerca di contatti, nella comunicazione, nel booking. Ed è quello che sto facendo. Ho lavorato sodo: con i risparmi mi sono autoprodotto, poi ho iniziato a vendere l'album e a fare concerti, così da poter avere un ufficio stampa. E ora, eccomi qui a rispondere alle vostre domande. Non ho mai avuto come obiettivo un contratto discografico bensì, da musicista, il mio desiderio è sempre stato quello di suonare il più possibile, di avere un contatto diretto con il pubblico. Oggi, non è facile avere un contratto discografico: la crisi è dappertutto, soprattutto in Italia, un Paese in cui la musica è ‘supertassata’. I discografici fanno fatica a produrre idee nuove e preferiscono puntare su artisti che fanno ‘numeri’ sicuri. E poi ci sono i ‘talent show’ che, se da un lato danno la possibilità a tanti giovani di realizzare un sogno, dall'altro tolgono loro la possibilità di crescere nella ‘strada’ dell'arte e di fare la vera ‘gavetta’: la ‘signora’ che permette a ogni artista di accarezzare l'umiltà. Vincere facile? Non mi piace e non ci credo. Fortunatamente, anche nel nostro Paese stanno arrivando strumenti che permettono a chiunque di potersi esprimere. Parlo, per esempio, di ‘musicraiser’, la piattaforma ‘crowdfunding’ con la quale un artista chiede ai propri fans di diventare produttori del proprio progetto. Si tratta di una forma di produzione dal ‘basso’, insomma, in cui le persone sono le uniche a decidere se un artista deve o non deve continuare a fare quello che fa. Per quanto mi riguarda, io ho un desiderio: far parte di una famiglia d'arte, avere delle persone che inizino a credere in quello che faccio”.
In ‘Vita in sottovuoto’ critichi la società del silicone “che non vuole pensare” e canti: “Questa non è una canzone orecchiabile”. Ritieni che le parole si siano svuotate di contenuto nella società odierna e che sia più difficile per un cantautore farsi comprendere? “Mi piacciono le parole dal sapore enigmatico, dietro le quali si nasconde il senso soggettivo delle cose. Nelle canzoni non critico niente e nessuno, bensì descrivo, a mio modo, quello che vedo, sento e vivo, quello che tocco con mano. Non a caso in ‘Vita in sottovuoto’, quando dico: “Questa non è una canzone orecchiabile”, in realtà il concetto di fondo è: “Quello che dici, che mi racconti e che vuoi vendermi, non mi convince: desisto”. Io credo ancora nella società in quanto composta da persone, da anime. Il problema sta nel come arrivare alle persone, poiché il potere è sempre nelle mani di pochi e, come diceva mio nonno, purtroppo: “A chi divide il bottino va sempre la parte migliore”.
Hai dichiarato che spesso le case discografiche ti dicono che il tuo genere, per usare un eufemismo, “non va per la maggiore”, che bisogna “indossare delle maschere”, come affermi anche tu nelle tue canzoni, per poter accedere a un mercato più vasto: cosa ne pensi? “A me non importa molto: indosso una ‘maschera’ quando scelgo di farlo, non con automatismo o perché a qualcuno andrei bene. Preferisco gli accordi ai compromessi: l'importante è credere in ciò che si fa, assaporare le sensazioni che una canzone mi dà quando la scrivo, la canto e la suono. Giornalmente, sudo per avere ciò che voglio. Sono un ‘lupo’ e non sarà di certo un gruppo che detiene il ‘guinzaglio’ ad ‘ammaestrarmi’. La lotta per la libertà è innanzitutto con se stessi, con il proprio narcisismo, con il fatto di accettare che non possiamo piacere a tutti. Se sono disposto ad accettare questo, posso arrivare da qualche parte, altrimenti resterò fermo, immobile, morto”.
Il brano ‘Na –Yesu’ richiama, in qualche modo, il grande Fabrizio De André. Infatti, in questa canzone te la prendi col potere “che ha rubato l'ultima carezza”: quanta forza hanno le canzoni per cambiare qualcosa nella vita delle persone e non solo? “Mi lusinga questo paragone: mi toccherà recitare a memoria ‘la buona novella’ di De André se vorrò liberarmi da questa ‘zavorra’. Diciamo che ‘Na Yesu’ l’ho scritta nel 2004, sei mesi dopo essere tornato dal mio primo viaggio in Africa, nello Stato del Benin. Da quel giorno, nel mio modo di stare al mondo sono cambiate parecchie cose. Certamente, parlo del potere che, da sempre, deturpa e sfrutta risorse di ogni genere in varie parti del mondo, in particolar modo in Africa. Un potere ipocrita, che si sta autodistruggendo: gruppi di persone si lavano la coscienza e creano posti di lavoro a noi ‘bianchi’; o case farmaceutiche che brevettano farmaci sulla pelle di uomini, donne e bambini ‘neri’ che non potranno mai curarsi con quelle stesse medicine; un potere che violenta i propri figli, ma che non riuscirà mai a togliere loro il sorriso e la voglia di esserci, nonostante tutto. Riguardo alla forza delle canzoni, una sera, mentre stavo cantando in un piccolo villaggio, una donna anziana si avvicinò e mi disse: “Non ho capito niente di quello che stai dicendo, ma sono certa che la musica della tua chitarra sta arrivando fino al cuore dell'ultima capanna di questo villaggio dimenticato dal mondo”. Una ‘fotografia’ migliore per descrivere la forza delle canzoni non credo ci sia”.
Quanta importanza ha avuto, nella tua musica, il senso del ‘viaggio continuo’ della tua vita? “Ci sono poeti che scrivono immaginando storie. E ci sono storie vissute dai poeti che le scrivono. Di certo, io scrivo ciò che vivo, ciò che incontro. Mi piace viaggiare, ho viaggiato tanto e, ancora, non mi sono fermato. Inizialmente scappavo dalla mia realtà. In seguito, mi sono accorto che stavo scappando da me stesso. Così mi sono fermato e ho iniziato a camminare il mondo più lentamente. Da quando sto nel mondo ‘al rallentatore’, per viaggiare non mi occorre salire su un aereo, poiché anche nel mio quartiere mi accorgo di tante sfumature interessanti, che la modernità frenetica non mi permette di guardare. Poi, quando ho la possibilità di prendere l'aereo, va bene lo stesso “.
Nelle tue canzoni parli un po' di tutto: passi dalla poesia d'amore in ‘Non sei un'ombra’ e in ‘Amami’, fino alla politica, per arrivare al sociale in ‘Fabio è salvo’, in ‘Na –Yesu’ e in ‘Anche se non ci fosse più niente da fare’, per poi passare ad argomenti più leggeri come in ‘Non siamo mica Adamo ed Eva’: perché questo eclettismo? E’ una scelta consapevole per mostrare tutte le sfaccettature del tuo primo album? “Sorrido al pensiero che ti sia arrivata leggerezza in ‘Non siamo mica Adamo ed Eva’: mi fa piacere, perché sono riuscito a trattare un tema complesso con freschezza. È una canzone che vuole mettere luce sulla pedagogia molto in voga del ‘dovere’, del ‘piacere’, dell'oggettivo e del soggettivo. Da quando siamo piccoli, veniamo incastrati in una serie di cliché, su cosa sia giusto o sbagliato, che non ci permettono di esprimere liberamente e completamente la nostra essenza. Così siamo portati a “pulirci di fretta e a lavarci subito le mani” pur di non assaporare fino in fondo il senso della nostra esistenza, per paura che arrivino la mamma o il papà di turno a rimproverarci. Quello che voglio per me e i miei figli, invece, è un mondo fatto di desideri e dell'impegno che porta a realizzarli. Certo, vivere all'interno di categorie e regole dà maggior sicurezza. Ma spesso, la sicurezza va a braccetto con l'infelicità, poiché ciò che ci rende vivi, in movimento, è quella piccola dose di rischio che ci porta ad andare avanti. Insomma, questo mio disco tratta del mondo interiore e del mondo sociale: era impensabile, per me, poter parlare del mondo senza toccare le molteplici sfaccettature che questo porta con sé”.
Come è stato il tour del 2012? “È stato diverso dagli altri tour, poiché ho suonato nelle piazze delle città, in strada. Ho dovuto prendere accordi con la parte di me che da sempre mi giudica ed è stato un piacere dirle: non ‘rompere’! Mi sono sentito unico, al centro dell'universo: ho alzato lo sguardo e ho visto gli Uffizi a Firenze o il Pantheon a Roma. Ho immaginato che la mia voce arrivasse ai pittori del Rinascimento. Ho immaginato che Dante mi stesse sorridendo e che Machiavelli mi stesse parlando del tempo. Mi sono commosso, e mi sono voluto bene. Tutto questo è arrivato al pubblico, ai passanti. E chi si è fermato e mi ha voluto ascoltare non si trovava lì per caso, per bere una birra. In strada, mi sono sentito riconosciuto e le mie canzoni hanno trovato un ‘porto’ dove poter riposare”.
Chi è ‘Fabio è Salvo’? “Fabio sono io, con tutte le mie contraddizioni, i miei paradossi, le mie ‘polarità’, che cerco giornalmente di integrare. Fabio sono io: folle e razionale, forte e fragile, accogliente e schivo, maturo e un po' bambino. Fabio è salvo quando ascolta i propri desideri, quando si assume la responsabilità di ciò che gli succede. Ma Fabio è anche Salvo, Antonio, Michele, Giovanni: un'intera generazione che, tutto sommato, arriva dalla comodità ma che, come massima aspirazione, si ritrova a lottare per resistere in tutta questa precarietà”.