Un’accozzaglia di stili dal rhythm and blues, all’hip-hop, al rock-pop, mescolati all’elettronica fino al ‘nonsense’: una serie di contaminazioni che suonano all’orecchio come la ricerca di una nuova identità artistica non ancora raggiunta
Il nuovo album di Tiziano Ferro, 'Il mestiere della vita', è composto da 13 brani registrati tra Los Angeles e Milano, per la produzione di Michele Canova Iorfida. In pochi giorni dalla sua uscita, il 2 dicembre 2016, è ‘schizzato’ in vetta alle classifiche come uno tra i primi album venduti con certificazione di platino per il singolo: ‘Potremmo ritornare’. Ferro, in una recente intervista, ha affermato: “E’ un disco nato un po' così, scritto senza fretta, con una gestazione di due anni, senza la pressione della scadenza, da solo nella mia camera per capire se ciò che stavo facendo mi divertiva ancora come quando avevo 16 anni. L'unica responsabilità che sento nei confronti della gente che mi ascolta è questa: non avere nessun tipo di paura nell’esporre la mia ricerca personale. Un tempo scrivevo canzoni ‘in difesa’, chiudendomi dietro i brani. Questo, invece, è il primo disco che faccio in cui ho amato il processo fino in fondo”. Purtroppo, questo nuovo lavoro di Tiziano Ferro, uscito solamente un mese fa dopo cinque anni di attesa, già si è fatto dimenticare. Fortunatamente. Ascoltando la raccolta, ci si ritrova disorientati: lui ne ha amato il processo, ma noi non ne abbiamo capito il significato. Se non fosse per i suoi due singoli, sapientemente ‘spinti’ dalle radio, questa sua ultima ‘fatica’ non ha nulla di concretamente indimenticabile. Non si capisce se a cantare sia Tiziano Ferro o un suo ‘alter ego’, decisamente meno brillante. L’album, alla fine, non è né ‘carne’, né ‘pesce’. Ci si aspettava un Ferro più maturo, visto che ormai si ritrova alla soglia dei 40 anni. Invece, se non fosse per l’inconfondibilità della voce, questo autore non lo ritroviamo neanche col ‘lanternino’. Ogni canzone è slegata dalle altre, senza alcun filo conduttore. Si evincono suoni improbabili: un’accozzaglia di stili dal rhythm and blues, all’hip-hop, al rock-pop, mescolati all’elettronica fino al ‘nonsense’. Una serie di 'contaminazioni' che suonano all’orecchio come la ricerca di una nuova identità artistica non ancora raggiunta. I testi sono del tutto assenti: anche a volerli leggere con attenzione non rimane che qualche ‘frasetta’ vuota, priva di spessore. In sostanza, ci si aspettava qualcosa di più efficace per il suo pubblico, in astinenza dal 2011. Qualche canzoncina c’è, ma nulla d’indimenticabile: il classico album di ‘passaggio’, con tre ‘pezzi’ buoni e poco altro. Accettabile il 'duetto' con Carmen Consoli, profondo e intimista. Ma alla tredicesima canzone, ultima della raccolta, si rimane con un punto interrogativo: “E allora? Tutto qui”? E la tanto pubblicizzata ‘Potremmo ritornare’ è l’unica che si fa ricordare, benché nella sostanza si tratti di una ‘ballad’ che non arriva neanche lontanamente alla compiutezza di brani come ‘Indietro’. Dopo l’ascolto di questo album resta una domanda, forse un po’ scomoda: che fine ha fatto Tiziano Ferro? Tornerà? Oppure è già entrato nella sua fase di declino musicale? Quello che rimane è un retrogusto amaro e molta delusione, non un ritorno al passato, quasi sempre positivo per un’artista maturo. Qui si assiste quasi a una regressione, al non voler crescere: è rimasto bloccato, musicalmente in una fase post ‘Sere nere’; post ‘Rosso relativo’; post ‘Non me lo so spiegare’. L’unica cosa che speriamo, utilizzando il titolo della traccia numero 9 del suo disco, è che ‘Potremmo ritornare’. Ad ascoltare il vero Tiziano Ferro.
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